La costruzione del consenso
Forse, a chi si intende di questi temi, la semplificazione potrà sembrare eccessiva.
La propongo comunque.
Fondamentalmente, i modi per creare consenso e coesione (in un gruppo, in un’organizzazione, ma anche in un intero Paese) sono due: affidarsi alla logica amico-nemico, oppure costruire e comunicare un progetto credibile e convincente.
Nel primo caso l’impalcatura del consenso si regge su un messaggio: là fuori c’è un nemico pericoloso, la coesione interna, il consenso al leader, l’adesione a un’idea (magari senza troppo sottilizzare) servono a distinguersi e difendersi da quel nemico.
I vantaggi di questa modalità sono piuttosto evidenti:
- velocità nella creazione del consenso (se il nemico è davvero così pericoloso, non c’è che una possibilità: stare con chi lo combatte);
- forza nel reprimere il dissenso (o stai con me, o sei contro di me e, quindi, fai il gioco del nemico);
- focus sui comportamenti del nemico più che sui propri: non è nemmeno così necessario avere un progetto di sviluppo per il futuro, e, soprattutto, il confronto con i risultati passa in secondo piano.
Per tutti questi motivi, non sorprende il fatto che gruppi, organizzazioni, anche partiti politici nella fase iniziale del loro ciclo di vita (e nelle fasi in cui il tema del consenso è più rilevante) ricorrano a piene mani alla logica amico-nemico (non credo serva fare esempi).
Molto spesso, addirittura, queste narrazioni individuano il nemico all’interno del proprio sistema (altre parti dell’organizzazione, altre funzioni aziendali, altre correnti di partito, eccetera).
La seconda modalità, invece, consiste nel creare coesione attorno ad un progetto, ad un obiettivo, ad un “dover essere” persuasivo e motivante. Si tratta di un processo più lento, probabilmente più solido e inclusivo. Certo, questa modalità sottostà anche a quello che, in un ambito un po’ diverso, abbiamo definito “Il principio del progresso“. Non basta, cioè, stabilire un obiettivo coesivo, si deve anche comunicare costantemente un progresso al fine di mantenere alta la motivazione.
Non serve precisare come l’abilità del leader resta quella di dosare le due logiche, perché se è vero che di logica amico-nemico si può campare per un bel po’, gli effetti collaterali indesiderati non sono da poco:
- reprimere il dissenso può significare creare una conflittualità latente che approfitterà della prima occasione per manifestarsi;
- definire la propria identità soltanto per differenza rispetto al nemico vuole dire, comunque, non costruire un modello proprio che diventi un polo di attrazione di nuovo consenso, magari esterno rispetto alla cerchia iniziale. Si “incapsula”, cioè, l’identità del gruppo nella pura contrapposizione con il nemico;
- non avere un polo di attrazione, ma soltanto un polo di repulsione potrebbe creare, nell’organizzazione, delle “schegge impazzite” che, se anche si applicano per infliggere delle perdite al nemico, non sanno però “fare squadra”.
Infine (ma forse questa è la cosa più importante), le organizzazioni che basano il loro consenso interno soltanto sulla logica amico-nemico spesso implodono in brevissimo tempo, quando il nemico sparisce o perché viene sconfitto definitivamente (infatti, capita di osservare leader che preferiscono “mantenere in vita” un nemico proprio per non dover affrontare il problema della sua scomparsa), oppure perché qualcuno, anche dall’interno, inizia ad insinuare il dubbio che il mostro potrebbe non essere così brutto come lo si dipinge e che, a guardarlo meglio, si tratta più di un avversario che di un nemico.
Nota: questo post era apparso, pur se in forma un po’ diversa, sul blog “Crisi e sviluppo” di Manageritalia.
Visto che quella sezione non è più disponibile, l’ho ripreso qui.
Come sempre lucido e preciso. Purtroppo sembra che oggi siamo nel tempo del tutto e subito. Di conseguenza si fanno scelte che “rendono” subito in fatto di consenso ma senza prospettiva
Buondì Luca,
in effetti la logica amico-nemico può essere altamente propulsiva all’inizio, ma sulla lunga distanza destinata a spegnersi.
E penso che sia anche estremamente sfinente perché necessita di molta energia in una specie di similitudine con battaglie e campi di battaglia perenni.
Non dico che sia una logica completamente negativa: può servire per risolvere alcune questioni e raggiungere obiettivi in tempi rapidi. Però “lascia il tempo che trova” (come giustamente scrivi, organizzazioni/gruppi che si reggono su questo principio, implodono)
Personalmente ho esperienze di leadership di servizio, dove il potere non può essere esercitato salvo casi eccezionali (anche se ne vieni investito sulla carta). Lì la fatica è doppia.
Perché non basta la visione condivisa.
Non bastano valori condivisi.
Lì – per quanto sto imparando – c’è il coinvolgimento del singolo. Il farlo sentire “a casa”.
E’ un delicato equilibrio tra persuasione, condivisione di valori e cose, e di “leading by example”.
Complesso ed affascinante (anche per te che sei leader in quel momento e devi dosare le tue pulsioni “dittatoriali” – passami il termine – ed il tuo carattere).
Grazie.
buon giorno Luca,
io sto vivendo una realtà associativa dove regna e da vari anni la ricerca (e ottenimento) del consenso con il metodo amico-nemico ed ora il leader stesso si sta domandando come mai le persone non partecipano più attivamente, perché non sono propositive e soprattutto come mai non si sentono a casa loro tra amici ? leggendo le tue righe assolutamente rispecchiano quanto successo.
Però sarebbe piacevole come instaurare e impostare l’altro sistema di coesione, soprattutto mi piacerebbe conoscere come farlo assimilare al leader inconsapevolmente, agendo nei suoi confronti …….. lavoro difficilissimo credo.
grazie