Il lato oscuro del consenso
Proseguo il ragionamento iniziato con il post di qualche giorno fa circa il problema della creazione e gestione del consenso.
Oggi vorrei dedicare qualche riflessione al problema contrario: l’eccesso di consenso.
Gli studiosi delle dinamiche di gruppo utilizzano un termine: groupthink. Si tratta di un fenomeno psicologico che si verifica quando, all’interno di un gruppo, il desiderio di minimizzare il conflitto e di incrementare l’armonia porta ad aumentare il conformismo rispetto al pensiero dominante, sia esso quello del teamleader o della maggioranza.
L’autonomia di pensiero, la visione critica, il dissenso vengono sacrificati sull’altare della coesione del gruppo. Il groupthink può portare ad assumere pessime decisioni.
Lo studioso che più di tutti ha analizzato in profondità il fenomeno è stato Irving Janis.
Egli ne ha individuato i sintomi, i segni premonitori e alcune modalità di prevenzione.
La voce “Groupthink” su Wikipedia li illustra in dettaglio.
Mi soffermo soltanto sui rimedi, per sottolineare qualche aspetto interessante comune ad alcuni di essi.
Secondo Janis i modi principali per prevenire il groupthink sono questi:
- I leader dovrebbero assegnare a ciascun partecipante il ruolo di “valutatore critico”. Questo consente a tutti di esprimere liberamente obiezioni e dubbi.
- I leader non dovrebbero esprimere un’opinione quando assegnano un compito al gruppo.
- I leader dovrebbero evitare di partecipare a molti dei momenti di incontro del gruppo, al fine di evitare di influenzare eccessivamente il risultato.
- L’organizzazione dovrebbe stabilire che molti gruppi diversi lavorino sullo stesso problema.
- Tutte le alternative dovrebbero essere prese in considerazione.
- Ogni partecipante dovrebbe discutere le idee del gruppo con persone di fiducia esterne al gruppo stesso.
- Il gruppo dovrebbe invitare esperti esterni nei meeting. I membri del gruppo dovrebbero essere autorizzati a discutere con gli esperti esterni e a porre loro domande.
- Ad almeno un membro del gruppo dovrebbe essere assegnato il ruolo di “avvocato del diavolo”. Questo ruolo dovrebbe essere assegnato ogni volta ad una persona diversa.
Alcune riflessioni su questo elenco di rimedi preventivi.
La prima, banale: un teamleader dovrebbe essere sanamente diffidente verso un eccesso di consenso e, anche se può sembrare paradossale, stimolare forme di dissenso e di critica.
Specie di questi tempi, è utile trattare con diffidenza il pensiero unico.
La seconda: esercitare la propria leadership su un processo decisionale non significa necessariamente intervenire sul contenuto della decisione, anzi. Spesso è più utile, piuttosto che concentrarsi sul “che cosa” viene deciso, capire “come” si è arrivati alla decisione (come si sono raccolte le informazioni, come sono state elaborate, come si è giunti alle conclusioni). La leadership va esercitata sulla struttura, spesso, prima che sul contenuto di una decisione.
La terza: spesso esercitare quest’ultimo tipo di leadership significa “liberare” i membri del team dai ruoli dentro cui sono “incapsulati”, fare recitare loro una parte (vedi il punto 1, il punto 3, il punto 8). Normalmente, nella fase di raccolta delle informazioni, chiediamo ai membri di un gruppo di esprimere le proprie opinioni in maniera documentata e imparziale. Questa imparzialità, però, porta le persone a esprimere soltanto opinioni appropriate rispetto al loro ruolo, inibendo la critica in favore della coesione del gruppo. Autorizzare le persone ad essere “parziali” (ad essere “di parte”, ma anche a “recitare una parte”) può liberare quel potenziale di critica e dissenso costruttivo che a volte consente di evitare gli errori di valutazione e decisione che il pensiero unico inevitabilmente porta con sé.
Nota: questo post era apparso, pur se in forma un po’ diversa, sul blog “Crisi e sviluppo” di Manageritalia.
Visto che quella sezione non è più disponibile, l’ho ripreso qui.
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