Leadership: questione di quantità
Su Time, un interessante resoconto di una ricerca svolta alla University of California, Berkeley da Cameron Anderson e Gavin Kilduff.
Lo studio mostra come i gruppi scelgano i loro leader sulla base di quanto ogni persona contribuisce alla discussione nel gruppo, anche quando questi contributi non dimostrano una reale competenza delle persone stesse.
Un campione di studenti divisi in gruppi di quattro doveva simulare una competizione per strutturare un’immaginaria organizzazione no-profit dedita all’ambiente. Un premio di 400 dollari sarebbe toccato alla migliore organizzazione (a giudizio degli stessi ricercatori). L’obiettivo era osservare come, all’interno dei gruppi stessi, emergesse una leadership.
Al termine del loro lavoro nei team, i membri di ogni squadra hanno espresso un giudizio sui loro compagni di lavoro, sia sul livello di influenza sul gruppo, sia (più importante) sul livello di competenza. Anche un gruppo di osservatori indipendenti ha espresso la stessa valutazione, e lo stesso hanno fatto Anderson e Kilduff. Ebbene, tutti i tre gruppi sono giunti alla stessa conclusione: le persone che avevano parlato di più durante le sessioni di teamwork erano valutati meglio sia a livello di “intelligenza in generale” che a livello di “affidabilità ed autodisciplina”. Le persone che avevano parlato meno, invece, venivano giudicate mediamente più “convenzionali e non creative”.
Gli individui dominanti nel gruppo ottenevano, quindi, un’alta capacità di influenzare perché erano percepiti come più competenti degli altri.
Ma era vero?
Per comprenderlo gli sperimentatori hanno ripetuto un esperimento simile, questa volta su un oggetto più facilmente misurabile: la matematica.
Questa volta, quindi, i team dovevano risolvere problemi matematici.
Di nuovo, gli individui che avevano parlato di più erano più facilmente descritti dai loro pari come leader, ma anche come persone competenti (in questo caso in campo matematico).
Ed a contare, ancora una volta, sembrava essere la quantità delle risposte date più che la loro qualità. I partecipanti all’esperimento, infatti, sembravano assegnare riconoscimento sia a chi rispondeva per primo, che a chi rispondeva per secondo o per terzo ad un quesito, e magari aggiungeva pochissimo rispetto a quanto detto prima.
Il risultato era che spesso chi veniva classificato come molto competente non era colui che aveva dato il maggior numero di risposte corrette. E nemmeno colui che, in altri test matematici, aveva ottenuto il punteggio più alto. Era semplicemente colui che aveva dato il maggior numero di risposte.
Le conclusioni degli autori: “Gli individui dominanti si erano comportati in modo da apparire competenti, al di sopra ed oltre le loro reali competenze“.
Molto interessante come questione.
Tuttavia mi chiedo se non influiscano altri aspetti. Solo per fare un’esempio, se gli intervistati avessero avuto diverse età come sarebbe andata?
In effetti, i fattori in gioco sono molti e per i ricercatori non è facile “pulire” uno studio da tutti i possibili elementi di disturbo.
Come dici tu, la questione è interessante e, mi pare, provocatoria.
Grazie della risposta Luca,
la questione oltre ad essere provocatoria è anche estremamente reale.
In diversi campi imprenditoriali specialistici alcuni professionisti sono riusciti, aprendo riviste specializzate nel proprio settore, ad elevarsi a livello nazionale, non per competenza ma per visibilità.
E’ quello che provo a fare io con il blog… 😉
Battute a parte, mi capita spesso, anche in contesti formativi, di discutere il tema della visibilità e della forma vs i contenuti e la competenza.
Io, a volte, provocatoriamente, dico che in alcune circostanze e contesti la forma E’ contenuto…
Giusta osservazione. E’ la stessa logica per cui al termine di una conferenza la gente dice “quello ha parlato proprio bene” (e magari ha esposto aria fritta), come se fosse un indice determinante ai fini dell’obiettivo della stessa.
Questo post mi ha veramente colpito, terro a mente il concetto, grazie Luca!
Il tema è complesso…
Solo un’altra provocazione, per ora (poi magari ci tornerò su in maniera articolata).
Spesso ci concentriamo sulla funzione della comunicazione agente descrittivo della realtà.
In verità, spesso, la comunicazione non si limita a descrivere la realtà: la crea.
Ho conosciuto un tizio di Milano che si occupava di formazione. Da poco si è iscritto ad un corso di illusionisti. Dice,in confidenza, che alla fin fine lui deve illudere per riuscire nello scopo.