Parole e decision making
Nel mio intervento nel percorso formativo “Dalla verifica alla gestione” di cui ho parlato in precedenza, ho tratto un concetto da un articolo di Barry Schwartz apparso su Scientific American di luglio (ripreso anche dall’edizione italiana Mente & Cervello). Ecco il testo:
Immaginate che il nostro paese debba fronteggiare una misteriosa malattia asiatica, che – secondo le previsioni – potrebbe uccidere 600 persone. Per combattere l’epidemia, i responsabili governativi hanno proposto due programmi alternativi. Nel programma A, 200 persone saranno salvate; nel programma B c’è una probabilità su tre che 600 persone saranno salvate e due su tre che nessuna lo sarà. Di fronte alla scelta, il 72 per cento delle persone intervistate ha optato per il programma A, preferendo salvare con certezza 200 persone che rischiare di non salvarne nessuna.
Immaginate ora che gli stessi funzionari propongano altre due opzioni: secondo il programma C, 400 persone moriranno; secondo il programma D c’è una probabilità su tre che nessuno morirà e due su tre che tutte le 600 persone periranno. Di fronte a questi due scenari, il 78 per cento delle persone ha scelto D. Questo valore è in sintonia con i risultati di uno studio classico condotto dallo psicologo premio Nobel Daniel Kahneman, della Princeton University, e dal suo collaboratore storico, lo psicologo Amos Tversky.
Le due coppie di opzioni – A o B, e C o D – sono identiche: salvare 200 vite significa che 400 persone moriranno e – sia in B che in D – accettare una probabilità su tre di salvare tutti significa assumere due probabilità su tre che tutti muoiano. Qualunque sia la scelta, la logica dovrebbe essere la stessa. Come mai, allora, tendiamo a preferire A a B, ma facciamo la scelta contraria con C e D?
Secondo Kahneman e Tversky rispondiamo a scelte che implicano perdite, come nel caso di centinaia di vittime, in modo differente rispetto a quelle che prevedono guadagni, come il numero di sopravvissuti. Quando si tratta di scegliere tra esiti positivi, vogliamo andare a colpo sicuro (salvare 200 persone), mentre siamo più disposti ad assumerci rischi quando soppesiamo le perdite. È una tendenza psicologica che si può sfruttare formulando le opzioni in maniera calcolata. Dai primi studi di Kahneman e Tversky, condotti una trentina d’anni fa, i due ricercatori, e molti altri sulla loro scia, hanno scoperto diversi modi in cui il linguaggio influisce profondamente – e spesso in modo paradossale – sulle nostre scelte.
L’articolo prosegue con altri esempi di come elementi legati al “come” vengono poste le domande e le relative scelte influenzano il processo decisionale.
La conclusione, interessante, è che, di fronte ad una decisione, la nostra rappresentazione mentale è solitamente quella di un processo razionale in cui consideriamo vantaggi, svantaggi, preferenze, valorie e, quindi, scegliamo l’opzione preferita. Queste ricerche suggeriscono invece che le nostre preferenze (e i nostri valori) sono facilmente influenzabili a seconda di come viene formulata una domanda.
Schwartz conclude così:
Quando valutiamo qualcosa siamo alla mercè del contesto. […] Se saremo vigili e controlleremo la confezione entro ci ci vengono proposte le opzioni, allora potremo constrastare alcuni effetti del contesto. Ma non riusciremo mai a coglierli tutti.
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