Q.I., successo e il problema del talento

Outliers, l’ultimo libro di Malcolm Gladwell (Fuoriclasse. Storia naturale del successo, nella traduzione italiana) è ricco di spunti interessanti.
L’intero libro è giocato sulla relazione tra talento, duro lavoro e condizioni facilitanti che favoriscono il successo.
Non mancano provocazioni e deduzioni originali e spiazzanti.
Uno dei concetti che più mi ha incuriosito è la relazione tra Quoziente d’Intelligenza e successo.
La domanda è: chi ha un elevato Q.I. ha più probabilità di avere successo nella vita reale?
Sì, ma fino a un certo punto… letteralmente.

Mi spiego: se misuriamo il Q.I. di un gruppo di persone (per esempio, con le Matrici di Raven), e consideriamo un valore pari a 100 la media, a questo punto sappiamo che un valore inferiore a 70 denota persone mentalmente incapaci, un valore un po’ superiore a 100 è il minimo per riuscire a superare degli esami universitari, un valore pari a 115 è necessario per essere ammessi ad un corso post-laurea dove ci sia un po’ di competizione.
Osservando le statistiche, al crescere del Q.I. crescono scolarizzazione, reddito e perfino durata media della vita.
Sembrerebbe, quindi, che esista una relazione tra intelligenza misurata dal Q.I. e successo.
Il problema è che questa relazione è valida, come dicevo, fino a un certo punto.
E questo punto è identificato con un valore di circa 120.
Oltre questo valore la relazione non sembra avere più alcuna validità.
Se, quindi, una persona con Q.I. di 120 ha molte maggiori probabilità di avere successo rispetto ad una con un valore di 100, lo stesso non vale per una persona con un valore di 140 rispetto ad una con valore 120.
Oltre la soglia, l’aggiunta di ulteriore intelligenza non sembra fornire un vantaggio tangibile.
Per usare le parole dello psicologo britannico Liam Hudson (citato dallo stesso Gladwell):

È ampiamene dimostrato che, se una persona ha un quoziente di intelligenza pari a 170, le sue capacità di ragionamento saranno più sviluppate di quelle della persona con un QI di 70, e ciò è tanto più vero quando il paragone viene fatto tra risultati più prossimi, per esempio tra 100 e 130. Sembra tuttavia che il rapporto si interrompa quando si mettono a confronto due persone con un QI relativamente alto… uno scienziato maturo con un QI di 130 ha le stesse probabilità di vincere il Nobel di un suo collega che vanta un QI di 180.

Non serve, quindi, essere dei geni assoluti per vincere il Nobel.
Serve essere intelligenti quel tanto che basta. Per il resto, la differenza la faranno altri fattori (di cui, non ultimo, la fortuna).

Ho discusso di questo concetto durante una sessione formativa qualche giorno fa, nella quale si era posto il problema del talento: per valutare quanto investire (in formazione, affiancamento, eccetera) su un collaboratore, le doti innate sono un buon indicatore? Più sono elevate e più vale la pena di investire?
La risposta è:
Sì, ma fino a un certo punto.

7 commenti
  1. stefano dice:

    Molto vera questa correlazione “fino ad un certo punto” …
    Credo che la misurazione del QI sia valida ma, scusa il gioco di parole, fino ad un certo punto perchè non riesce a misurare quelle aree importanti al successo di una persona quale capacità relazionale, capacità organizzativa ecc.
    In questo senso sul QI basta una soglia …

  2. Luca dice:

    Grazie stefano.
    E’ vero, la misurazione del QI non è tutto e non esprime sicuramente in toto il concetto di intelligenza (Gardner ci ha insegnato qualcosa in proposito). La provocazione è anche più generale: le condizioni iniziali possono favorire ma fino ad un certo punto. Il resto è una combinazione di lavoro e circostanze favorevoli.

  3. Annalisa dice:

    Proprio alcuni giorni fa mi stavo facendo una domanda. C’è un livello soglia oltre il quale un curriculum eccellente diventa un ostacolo per la ricerca di un lavoro piuttosto che un vantaggio? Qual è questo livello? Quanta esperienza è troppa. Se si dimostrano eccellenti voti all’ Università e un’enorme quantità di esperienze non risulta un ostacolo? Il datore di lavoro potrebbe pensare che questa superiorità della persona non vada bene nel team dell’impresa.
    Quindi bisogna ridursi ad un ” nella media” o leggermente al di sopra della media?

  4. Nicola Menicacci dice:

    Caro Luca, anzitutto grazie, i tuoi scritti mi aiutano a superare questo momento di difficoltà a causa della maledetta schiena. Una delle cose interessanti del QI è che, nel mio caso, le prove in inglese danno risultati più alti che in italiano. il che mi fa pensare al pensiero laterale di De Bono e alle intuizioni “fuori dalla scatola” che senz’altro sono penalizzanti per le determinazioni standard ma che ai fini pratici danno molto, molto di più. Mi viene da pensare che quel 120 sia proprio il limite che separa verticalita’ da lateralità. Grazie come sempre e Salutoni!

  5. Luca dice:

    @ Annalisa
    Credo che il messaggio non fosse esattamente questo: l’idea che sta dentro il libro di Gladwell è che noi definiamo il successo come talento + duro lavoro. Entrambi questi fattori sono importanti, ma, appunto, fino ad un certo punto. In realtà ci sono tutta un’altra serie di fattori “situazionali” molto impattanti e spesso difficili da individuare.
    Quello che scrivi, però, merita una riflessione…
    @ Nicola
    Pensiero interessante… ci rifletterò! E auguri per la schiena!
    @ Stefano
    Grazie molte per la segnalazione!

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  1. […] Se però considero che ho fatto il test subito dopo colazione, ancora mezzo addormentato, e che ho perso i primi minuti per chattare in contemporanea, è molto probabile che il mio IQ reale attuale sia di almeno un paio di punti superiore. E curiosamente, pare che superati i 120, le differenze contino molto meno. […]

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