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Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

Un commento critico al mio ultimo post mi ha suscitato alcune riflessioni. Roberto se la prende con chi fa il mestiere di formatore e di coach, e con me in particolare.
Un paio di premesse (non difese, ma precisazioni):

  • Roberto sostiene che si specula per vendere consulenza, corsi e libri. Nel mio caso, quanto scrivo qui non ha l’obiettivo di vendere consulenza, perché io non ne faccio se non molto occasionalmente: mi occupo di formazione. Inoltre, svolgo la stragrande maggioranza del mio lavoro all’interno di due consorzi partecipati dal Politecnico di Milano: MIP e Cefriel. Non “vendo”, quindi, direttamente. Al limite si può dire che il mio obiettivo sia quello di guadagnare e mantenere la fiducia di questi due “committenti”, ma mi pare cosa molto diversa da quanto ipotizza Roberto. Direi che “docente”, nel mio caso, è una definizione più aderente di quella di “formatore”.
  • Per quanto riguarda il coaching, non lo pratico: non ne ho le competenze e, al momento, non mi interessa svilupparle.

Detto questo, però, il commento mi provoca, perché mette in evidenza rischi reali del mio mestiere. E mi sa che a volte dentro a questi rischi ci sono cascato.
Così in questi giorni ci ho pensato su un po’.
Non ho conclusioni da portare, soltanto due pensieri che mi hanno guidato nella riflessione.
Il primo è di Jacques Lacan, che un giorno ha detto:

Un pazzo che si crede un re è pazzo, ma un re che si crede un re è ancora più pazzo.

Non so se interpreto correttamente questo pensiero, ma mi pare ci dica che, in fondo, il delirio è sempre delirio dell’io, a qualsiasi livello si manifesti. Quindi, il formatore che si crede formatore è pazzo di quel delirio che fa credere di possedere soluzioni e di esserne portatore. L’essenza del mio mestiere dovrebbe essere, invece (così almeno io credo), l’offerta di opportunità per allargare le opzioni e le possibilità da un lato, e dall’altro la condivisione di criteri di scelta tra queste possibilità. Altrove ho chiamato questi due movimenti logica della varietà e logica dell’appropriatezza. Senza, appunto, un io al centro.

Il secondo sono i famosi ultimi versi di una poesia di Eugenio Montale:

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Non vorrei scomodare il poeta per una quisquilia, ma in questi giorni mi sono detto che se avessi pensato di più a ciò che non sono e ciò che non voglio essere (e meno a quello che credo di essere e che credo di volere), qualche stupidaggine l’avrei evitata. E non sto parlando solo del mio lavoro.