La manutenzione della comunità
Alfonso Fuggetta ieri, 2 giugno, ha pensato di mettere al centro un tema interessante: Il senso perduto della comunità.
Sono sostanzialmente d’accordo con molto di quello che dice e concentro l’attenzione soltanto su un aspetto (forse di dettaglio, per me rilevante).
Alfonso ricorda, all’inizio del suo ragionamento, di essere cresciuto in parrocchia, all’oratorio. Ne fa un esempio di comunità. Io non solo all’oratorio ci sono cresciuto, ma continuo a passarci parecchio del mio tempo libero. Vivo in provincia e qui le parrocchie sono ancora veri centri di aggregazione.
Pensando a quest’esperienza, e sullo stimolo delle riflessioni di Alfonso, vedo un paio di cose che mi sembrano caratteristiche di quelle strutture aggreganti che possiamo, in qualche modo, chiamare comunità (al di là della loro matrice più o meno religiosa).
La prima è la disponibilità da parte di chi vi appartiene a dedicare tempo (si potrebbe parlare genericamente di “risorse”, ma, mi pare, il tempo è la risorsa più indicativa in questo caso) alla “manutenzione” della comunità stessa.
Un esempio banale di questi giorni: l’oratorio della parrocchia aveva bisogno di lavori straordinari. Alcuni amici hanno dedicato il loro tempo e le loro capacità professionali a questi lavori. Questo consentirà di contenere le spese e, con le risorse a disposizione, poter fare di più. Ho in mente la scena di una mamma-volontaria che porta un caffè a questi che stavano, appunto, lavorando alla manutenzione di un bene comunitario. A proposito di qualità delle relazioni.
La prossima domenica, conclusi i lavori, la comunità stessa si è incaricata di sbrigare le pulizie, in modo che tutto sia pronto per il Grest (il centro ricreativo estivo per bambini e ragazzi). Non sto parlando soltanto di volontariato (di cui fortunatamente il tessuto sociale del nostro scassatissimo Paese è ancora molto ricco): sto parlando della consapevolezza che la relazione del singolo con la comunità implica non solo uno scambio utilitaristico (un do ut des), ma la volontà di spendersi affinché si creino condizioni utili a tutti quanti partecipano e parteciperanno.
Non so se sono riuscito a spiegarmi.
Questo mi pare un indicatore che la comunità sia vissuta come un bene in sé, meritevole di attenzione.
La seconda cosa ha a che vedere con il fatto che una comunità che funziona celebra momenti identitari, spesso anche in modo rituale.
Ora, se parliamo di una parrocchia, è chiaro che i momenti rituali non mancano.
Però, anche qui, è il modo in cui li si celebra che fa la differenza. Ci sono momenti, nella vita di una comunità, che scandiscono il respiro della comunità stessa, ne celebrano l’identità e, così facendo, contribuiscono a rafforzarla. Non sto legittimando una sorta di “pensiero magico”, sto solo sostenendo che il gusto di celebrare momenti chiave, anche in modo simbolico, è uno degli ingredienti fondamentali dell’aggregazione.
Ne ho parlato, seppur da un’angolazione diversa, in altri post: qui e qui.
Il punto di fondo comune alle due caratteristiche mi pare proprio il fatto di trattare la comunità come un’entità in sé e per sé, un qualcosa di superiore alla somma delle individualità, che va salvaguardato, “manutenuto” (appunto), reso oggetto di attenzione non strumentale.
Come sempre Luca è lucido e pacato e come la tua riflessione sempre vale più del tempo che ci vuole per leggere. Io non sono credente e non frequento nessuna parrocchia ma condivido tutto quello che dici. Di più sono convinta che la condivisione di spazi, di risorse, di mete, lavorare insieme a costruire il benessere di tutti siano alla base di ogni nostra felicità duratura. Nessuno sopravvive da solo, capirlo e farlo capire ai nostri figli è necessario e ci prepara ad affrontare gli inverni della vita che prima o poi arrivano per tutti. E condivido anche che sia necessario alimentare l’aggregazione attraverso i “riti” che le culture umane hanno da sempre inventato proprio per creare il cerchio che ci accoglie. In questa logica in qualche modo realizziamo anche quella economia del dono reciproco che ci salva dalla crudezza del mercato. Grazie per la tua riflessione, per le tue parole
Grazie a te, Giulia, per i tuoi commenti, sempre fonte di ispirazione. Mi piace molto il concetto di rito come “creazione del cerchio che ci accoglie”.
Luca, mi riconosco molto in quanto scrivi; anche la mia storia e’ simile alla tua con la differenza che la propensione al dare, tipica dei luoghi come gli oratori, io l’ ho poi trasferita nella più ‘ampia comunità’ comunale.
Un’esperienza indimenticabile, che consiglio a tutti in quanto illumina la mente sul perché e sul come di molte situazioni.
Lì è molto più difficile costruire comunità, la matrice è più labile, ma i successi hanno doppio valore.
Esercitare e far esercitare la partecipazione rimane una sfida; anzi, più il tempo passa, un difficile obiettivo da perseguire, sperando non diventi un’utopia.
Alberto