Chi si guarda nel cuore
Non capisco di musica, l’ho già detto.
Che cosa ci facessi, ieri sera, al concerto di Fossati, per il suo tour d’addio, non è stato chiaro nemmeno a me, per lo meno fino a La pianta del tè.
Non che non volessi esserci, anzi.
Mi stavo divertendo, e a tratti era proprio commozione.
Fossati la musica la sa fare, e anche chi non ci capisce, in qualche modo, va al traino.
Poi, appunto, La pianta del tè.
Ci sono alcune parole, lì dentro.
Fanno così:
Chi si guarda nel cuore
sa bene quello che vuole
e prende quello che c’è
Mi sono ricordato, allora, del perché fossi lì.
Era un omaggio (non parliamo di inchino, di questi tempi) a uno che forse più di ogni altro, con le sue parole, è riuscito nella mia vita a dare un nome a un’idea e (più spesso) a un sentimento.
Succede, no, di avere qualcosa dentro, che finché non ha un nome fa anche più fatica ad uscire.
Ecco, Fossati tante volte ha battezzato quella roba lì.
E la musica fa il suo lavoro.
Non so bene come dirlo, e allora lo chiamo “togliere la gravità alle parole”.
Che, francamente, se le stesse fossero state su un libro mi sarebbero parse saccenti e un po’ spocchiose.
Con intorno la musica, no.
Dare un nome, quindi.
Ricordo una conferenza di Ernesto Balducci, molti anni fa.
Lui diceva che dare un nome è un po’ come voler possedere. Una cosa non bella, insomma.
Qui, no.
Vediamo se riesco a spiegarlo: mi ricorda un po’ certe scene dei film, quelle in cui uno è sdraiato a terra, ferito grave.
Arriva uno sconosciuto a soccorrerlo e la prima, assurda cosa che fa è chiedergli Come ti chiami?
E poi lo chiama per nome.
Alla fine, di solito, nei film, il poveraccio schiatta.
Ecco, forse: più che dare un nome ai sentimenti, Fossati, i miei, li ha chiamati per nome.
La maggior parte di questi sentimenti, come nei film, sono schiattati, in questi vent’anni e anche di più.
Ieri sera alcuni sono tornati ad affacciarsi.
Ma non erano fantasmi.
No.
Perché ho un nome con cui chiamarli.
La pianta del tè ha sempre su di me un duplice effetto. La musica mi porta lontano. Le parole mi portano dentro. In casa, intendo, non sulla veranda. E’ un bell’effetto. Così come trovo bello il riaffacciarsi – di tanto in tanto – di fantasmi che si è in grado di chiamare per nome, fosse anche grazie ad un “cantautore” o magari proprio grazie ad esso.
Per il resto, d’accordo su tutta la linea, commozione compresa.
Michela