Je suis… quoi?
A volte ci si chiarisce le idee, e poi si comincia a scrivere.
A volte il contrario: si scrive per chiarirsi le idee.
In questo caso è vera la seconda.
Ci siamo arrabbiati e indignati per le persone uccise per aver disegnato vignette satiriche.
Abbiamo sentito di doverci difendere. Abbiamo scritto “Je suis, Io sono”, e per una volta ci siamo messi dietro ai nostri politici. Qualcuno li ha chiamati (non lo si faceva da un po’) leader.
Sacrosanto.
Abbiamo difeso la libertà di satira “senza se e senza ma”.
La libertà di poter disegnare vignette corrosive su chicchessia e su qualunque tema.
Questo, mi è parso, voleva dire quel “Je suis Charlie“.
A me, però, una domanda resta: è davvero la libertà di satira quella che dobbiamo difendere ad ogni costo?
In Francia la libertà di satira non è “senza se e senza ma”. Ha dei limiti. Gli stessi redattori (i superstiti) di Charlie Ebdo, in un’intervista, hanno affermato di essere sempre riusciti a fare satira “rimanendo entro i limiti della legge” (cito a memoria, il concetto è quello).
In molti Paesi occidentali la satira ha limiti anche piuttosto stringenti. Negli USA mi risulta (se qualcuno ha notizie contrarie, ogni commento è benvenuto) che sia vietato fare satira sulle religioni e sulle razze. Alcune vignette di Charlie Ebdo, là, sarebbero forse state illegali.
Questo fa degli Stati Uniti un Paese meno libero?
Rischio di essere retorico: a me pare che non sia questo il punto.
Quello che dobbiamo difendere è un certo modo di vedere il mondo, per cui i confini della libertà di satira (per dirne una, ma le questioni sono molte e diverse) non sono stabiliti una volta per sempre, perché c’è un processo sociale che crea sensibilità e idee, ci sono possibilità e strumenti di aggregazione che trasformano queste idee in posizioni, un confronto democratico che trasforma le posizioni in istanze, una politica che traduce le istanze in leggi, una magistratura che giudica i confini di queste leggi. E ciascuno di questi passaggi è soggetto al dissenso e alla critica. Ma il processo che parte da una sensibilità e arriva a un dettato legislativo e, eventualmente, ad una sentenza, quello no. Quello lo si rispetta. Non si imbraccia un kalashnikov per rendere la strada più breve. In questo siamo diversi. Non nel luogo in cui abbiamo messo i confini, ma in come quei confini li abbiamo costruiti, li difendiamo e, se è il caso, modifichiamo. Gli Stati Uniti non sono meno liberi dell’Italia perché i confini della satira sono più stretti. Conta come ci si è arrivati a quei confini, e conta che, domani, potrebbero essere diversi.
Va detto: questa cosa è un vaso di cristallo. Fragile, da trattare con cura. Quando serve, da tenere al riparo.
È, anche, a suo modo molto faticosa. Tanto che chi cerca scorciatoie fa leva proprio su questo argomento.
Se tutto questo è vero, mi chiedo perché ad intestarsi più degli altri questa battaglia siano proprio quelli che questo rispetto per ciò che siamo non esitano a metterlo sotto i piedi per qualche voto. Quelli che sventolando alla leggera la retorica dei fucili e delle ronde, come se fosse niente.
Terreno scivoloso, lo so.
Su cui non ho certezze. Però è qui che lo metterei, il mio Je suis.