Sui muri e sulla pulsione securitaria. Quindi, sulla rielezione di Trump.

Come fare a non commentarla? Sì, lei: la rielezione di Donald Trump.

Del resto, quale migliore occasione per esercitare un po’ di razionalità a posteriori farcita di qualche “l’avevo detto io”?
Come sapete, sono un politologo di formazione, ma da molti anni non mi occupo più di analizzare in dettaglio il potere politico: ho spostato la mia attenzione sulle dinamiche di potere nelle organizzazioni.
Le cose che dico, quindi, sono il frutto un po’ dei miei studi e un po’ di alcuni pensieri scambiati in questi giorni.

Li sintetizzo in due idee.
La prima è una cosa di cui parlo da un po’, la seconda è una cosa più recente, che la campagna elettorale e i suoi risultati hanno contribuito ad addensare e solidificare.

Uno

La lotta politica, almeno da una ventina d’anni a questa parte, è passata dall’essere uno scontro tra ideologie all’essere uno scontro tra narrazioni. Non mi è chiaro se questo sia avvenuto a causa del cambio dei media, oppure se il messaggio avrebbe seguito comunque questa traiettoria. Fatto sta che è avvenuto.

In questo non vedo differenze sostanziali tra gli schieramenti politici. Barak Obama, per dirne uno, ha interpretato perfettamente questo spostamento.
E se la priorità è dare in pasto personaggi, trame e sfide, allora è quasi naturale la personalizzazione della leadership politica.
Un’ideologia vive in chi la propone.
Una narrazione è chi la propone.

Due

Le sole narrazioni in grado di addensare consenso diffuso di questi tempi sembrano essere quelle basate sulla logica del nemico. Ne ho parlato ampiamente anche in Fate pace con il potere: l’impalcatura del consenso si regge su un messaggio forte veicolato dal leader: all’esterno del gruppo c’è un nemico pericoloso (o anche più di uno) e la priorità assoluta è la difesa dei valori, degli interessi, dei bisogni del gruppo dalla minaccia che esso rappresenta.
Se dovessi dare a queste narrazioni un’etichetta, sarebbe: narrazioni fondate sulla protezione, dove quest’ultimo termine può trovare le più diverse declinazioni.
L’avversario politico come minimo non è in grado di proteggere dal nemico, più spesso è in combutta con quest’ultimo.
Con un elemento distintivo, però, rispetto all’uso della logica del nemico in altri momenti storici: il pericolo rappresentato dalla presenza dei nemici non si traduce in una “chiamata alle armi”. Il solo momento di partecipazione alla lotta al nemico richiesto al cittadino-elettore è, appunto, quello del voto. Una volta eletto, è il leader che si assume l’incarico di costruire i muri (fisici, contro gli immigrati, doganali, contro i concorrenti, legislativi e giudiziari, contro i nemici interni).
Null’altro è richiesto.
Comodo, no?

Per questo (e per alcuni altri motivi che magari spiego in un altro momento) non sono d’accordo con chi invoca come chiave di lettura il fascismo eterno (ur-fascismo) di Umberto Eco. Se i suoi tratti costitutivi si possono ritrovare certamente nella cultura della destra europea e americana più che in quella di altre aree politiche, mi pare proprio servano a poco nello spiegarne il successo elettorale.

A me pare, invece, che il tutto si spieghi con il fatto che i messaggi (e, spesso, i leader) della destra appaiono più credibili nel proporsi come difensori e baluardi. In questo senso, davvero, non ho mai capito chi si domanda come una donna possa votare per Trump. Lo trova, semplicemente, una difesa più credibile. L’obiettivo è di soddisfare quella che Massimo Recalcati definirebbe “la tentazione del muro” (il titolo di un suo bellissimo saggio) e che io adatterei nella “esigenza del muro”. Lo stesso Recalcati, infatti, sottolinea:

Non bisogna dunque liquidare la spinta dell’uomo a difendere i confini della propria vita individuale e collettiva come una spinta in sé barbara o incivile. È un’indicazione che viene da Freud stesso: la vita individuale, come quella collettiva, necessita di protezione, di rassicurazione, edifica barriere per poter sopportare l’avversità del mondo. Gli esseri umani hanno da sempre protetto la loro esistenza; dalla potenza inumana della natura e dalla minaccia dei nemici. La spinta a delimitare il proprio territorio è un’espressione del carattere primariamente securitario della pulsione. Il gesto di tracciare il confine è un’operazione necessaria alla sopravvivenza della vita. La vita ricerca primordialmente il rifugio dalla vita e, al tempo stesso, la definizione di confini in grado di circoscrivere la propria identità.
[…] Senza radici e senza confini verrebbe infatti meno il sentimento stesso dell’identità di un soggetto individuale come di un soggetto collettivo, dell’Io come di un popolo. Non a caso nell’esperienza clinica l’assenza di confine definisce la vita schizofrenica: vita radicalmente smarrita, errabonda, disgregata, frammentata.
Tuttavia l’esistenza umana non è solamente desiderio di appartenenza e di rassicurazione, ma è anche spinta all’erranza, desiderio di libertà.

E da qui sviluppa proprio questa dinamica tra esigenza del confine e aspirazione alla libertà.

Rimangono, mi pare, due fatti.
Il primo: dal punto di vista della comunicazione politica, almeno in questo momento, soddisfare quella che Recalcati stesso definisce la pulsione securitaria sembra funzionare molto meglio di qualsiasi messaggio che faccia leva sull’aspirazione alla libertà.
Il secondo: declassare la pulsione securitaria a istinto ancestrale (ho letto di uomini del pleistocene…) non solo non funziona. Non è neppure giusto. Perché tracciare confini è un gesto che non è puro istinto: è definizione di identità individuale e collettiva.
La dico con le parole Alessandro Baricco:

L’idea di confine è una delle grandi conquiste degli umani sia dal punto di vista geopolitico (moltissime persone sono morte per difendere un confine, ancora mio nonno ha rischiato di morire per difendere un confine nel suo senso proprio più tecnico e più semplice, cioè il confine della sua patria e oggi lo fanno ancora in molti, nel mondo) ma è stata una conquista soprattutto psicologica. […] Mentre edifichiamo ponti, bisogna sempre ricordare che l’idea stessa di confine rappresenta per gli umani una conquista psicologica che è costata un sacco di tempo e un sacco di intelligenza. L’idea di confine, rassegnatevi, coincide con l’idea di identità. Senza confini è molto difficile avere un’identità.
(intervento alla quarta giornata interculturale Bicocca, maggio 2016)

Piuttosto, se si vuole costruire una contro-narrazione che abbia qualche speranza di fare breccia, bisogna ripensare profondamente questa dinamica tra confine e libertà.
Che non è come dirlo.
Conto, davvero, di approfondire.

 

L’eterno confronto tra potere e leadership

Il fatto che un bravo giornalista, serio e rigoroso, come Dino Pesole (Radio 24), nella sua trasmissione “A conti fatti. La storia e la memoria dell’economia“, abbia voluto scambiare con me quattro chiacchiere sul tema del potere e della leadership mi dà grande piacere.

Il titolo della puntata è lo stesso di questo post e, se vi va di ascoltarla, la trovate qui sotto.

Insomma, Fate pace con il potere prosegue il suo viaggio.

Lo devo proprio dire: questo libro mi sta offrendo tante occasioni per condividere idee con persone davvero interessanti.
Che è una delle cose belle di scrivere e di fare il mestiere che faccio.

Che il viaggio continui, dunque…

 

Intervista a Luca Marcolin – FBU

Il 27 maggio scorso sono stato ospite di Family Business Unit e di Luca Marcolin, per un’intervista con a tema il potere nelle imprese di famiglia (e, più in generale, nelle organizzazioni), sulla scorta delle idee che ho esposto in Fate pace con il potere.

Conversazione (come sempre accade con Luca) molto stimolante.

È disponibile, per chi volesse, sul canale YouTube di FBU

Fate pace con il potere

Post totalmente autoreferenziale, scusatemi…

Il fatto è che il 19 aprile sarà disponibile il mio nuovo libro.
So che non vedevate l’ora 😉
In questa newsletter, quindi: un piccolo spoiler sul libro e la possibilità, per chi lo desidera, di partecipare alla presentazione online che terrò mercoledì 10 aprile alle 17.00 (via Zoom)
Il link per l’iscrizione è questo
A chi vorrà esserci invierò, a qualche giorno dall’evento, una mail con il link per partecipare.
Ah, tra chi sarà collegato sorteggerò anche, dopo la diretta, tre copie del libro (il mio consulente di marketing mi ha detto che questa cosa dovrebbe attrarre un sacco di gente… sarà vero?).

… quasi me ne dimentico: la prefazione me l’ha scritta il mio dean, Federico Frattini… è una cosa che mi fa una sacco di piacere

Il libro

Fate pace con il potere
Questo è il titolo.
E il sottotitolo è: Contro la retorica della leadership

Una provocazione, quindi. Cerco di spiegarne i motivi nella quarta di copertina:

Il potere non gode di buona fama. Affermazioni come «meno potere e più leadership», elenchi di distinzioni tra l’essere capo e l’essere leader (tutte, naturalmente, a favore di quest’ultimo) e ricette preconfezionate su come condurre un gruppo al successo riempiono libri, articoli, post. La realtà della vita – nelle organizzazioni così come nei rapporti personali – è però ben diversa. Il potere esiste, eccome. Alimenta le decisioni, innerva le relazioni, influisce sui comportamenti. Spesso peraltro in modo positivo. Fate pace con il potere è dedicato a questo convitato di pietra, per comprenderlo nei suoi elementi costitutivi, per capire come agisce, per misurarlo, conquistarlo quando è necessario, ed esercitarlo in modo efficace. Perché giocare il gioco del potere è il modo più pratico per far sì che le cose accadano. Un libro per superare la retorica della leadership e scendere invece sul terreno della vita quotidiana di gruppi, aziende, associazioni, partiti politici. Un libro per imparare a leggere le organizzazioni per come sono davvero, e non per come ci piacerebbe che fossero.

I contenuti

Il libro parte da alcuni assunti:

  • potere, sia nel linguaggio quotidiano, che in molta letteratura manageriale, è una parola che ha assunto un significato sostanzialmente negativo, spesso contrapposto al valore positivo assunto dalla parola leadership;
  • in realtà il potere è una dinamica relazionale che innerva qualsiasi tipo di organizzazione sociale ed è uno strumento come un altro per far sì che le organizzazioni funzionino e lo facciano in modo efficiente. Va, quindi, innanzitutto conosciuto (visto che attorno alla sua definizione circola parecchia confusione) e, poi, rivalutato;
  • inoltre, la leadership non è una struttura relazionale contraria al potere, ma è, essa stessa, una forma di potere (nella definizione del libro, la leadership è una forma di potere fondata su uno scambio di beni simbolici, e basata sulla moneta del consenso). Nulla di strutturalmente diverso, quindi, dalle altre forme di potere.

Sulla base di questi assunti, il libro è diviso in quattro parti:

Prima parte
Tassonomia del potere

Viene condivisa una definizione di potere e vengono, quindi, delineate le sue caratteristiche e le dinamiche della relazione di potere.
Alla fine di questa parte il lettore ha a disposizione una griglia di lettura della relazione di potere che consente di comprenderne gli elementi costitutivi, i meccanismi di funzionamento, le diverse articolazioni e le caratteristiche della relazione stessa.

Seconda parte
La conquista e la gestione del potere

Questi capitoli sono dedicati a due temi principali:

  • come far crescere il proprio potere potenziale (la quantità di potere a disposizione) attraverso la crescita:
    • delle risorse a disposizione dei soggetti detentori del potere;
    • della credibilità del potere verso i soggetti che lo subiscono;
    • della desiderabilità delle risorse di potere per i soggetti che lo subiscono;
  • come esercitare il potere in maniera efficiente: come, cioè, trasformare le risorse di potere (potere potenziale) in condotte e comportamenti tenuti da chi subisce il potere (potere attuale) al minor costo possibile.

Terza parte
La cattiva fama del potere

In questi capitoli analizzo quali sono i fattori che conferiscono al potere un’aura di negatività:

  • alcune confusioni nella definizione del potere, che, quindi, attribuiscono al potere attributi che non sono suoi;
  • alcune comode abitudini (quelle, per esempio, di trovare soluzioni semplici a problemi complessi o di utilizzare narrazioni agiografiche come casi di successo) che mal si adattano al tema del potere;
  • soprattutto, però, la confusione, presente in molta letteratura manageriale, tra le cose come sono e le cose come ci piacerebbe che fossero, che porta a descrizioni idealizzate delle organizzazioni.

Quarta parte
Leadership e consenso

In questa parte analizzo il tema della leadership come forma di potere. Non, quindi, una trattazione sulla leadership in generale, ma sul suo rapporto con il consenso (un approccio politologico alla leadership).

Oltre ad una parte tassonomica, in cui delineo le modalità con cui si costruisce e gestisce il consenso e le tipologie di consenso (che generano tre forme di leadership: carismatica, ideologica, pragmatica), presento, proprio sulla base di queste definizioni, la mia critica alla leadership come strumento aprioristicamente migliore rispetto alle altre forme di potere per condurre un gruppo o un’organizzazione.

Spero di essere stato convincente…

Se è così, come dicono quelli che parlano bene, save the date…

Mercoledì 10 aprile dalle 17.00 alle 18.00

Ancora una volta, il link per partecipare