Modelli, complessità e vulgata

Ho ascoltato, in questi giorni, alcuni degli interventi dello scorso Festival dell’Economia di Trento.
Alcuni mi hanno interessato particolarmente. Uno di questi è un intervento di Luigi Spaventa in una sessione chiamata “Processo ai controllori e ai politici”.
Il format era quello di un vero e proprio processo, con un’accusa ed una difesa. Spaventa rappresentava l’accusa, appunto, ai contollori e ai politici, che poco o nulla avrebbero fatto per prevenire la crisi.
Voglio sottolineare, in particolare, un passaggio che riguarda, più che le autorità politiche e di controllo, gli economisti, perché mi sembra vi si esprima un concetto interessante.

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Leadership e network

Una delle cose belle del fare formazione è il continuo e fecondo scambio che nasce tra chi conduce e chi partecipa ai percorsi formativi.
È questo il caso di un modulo su Leadership e Teamwork che ho tenuto qualche settimana fa.
A Nicola Santangelo devo queste riflessioni su un modello di leadership adatto ad organizzazioni che operano come network.
Le condivido volentieri con voi: mi pare ci sia materiale per una riflessione.

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Lontani dalle etichette, specialmente in tempi di crisi

Il blog di John Baldoni offre spesso degli spunti interessanti. Uno mi pare quello contenuto nell’articolo In a crisis, avoid labeling.
La tesi è questa: i politici utilizzano spesso la pratica di etichettare i problemi.
Un esempio: l’assistenza alle aziende in crisi può essere definita da qualcuno “nazionalizzazione”, da altri “stabilizzazione”.
Queste semplificazioni hanno il chiaro fine di indirizzare il consenso. E funzionano perché parlano a dei seguaci più che a degli individui.
I manager dovrebbero evitare questa pratica, che comprime gli spazi del dibattito interno e sfavorisce l’emergere di una intelligenza collettiva e di modi alternativi di pensare, specialmente nei momenti di crisi.

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Tesi, antitesi, sintesi

I commenti all’articolo sul brainstorming mi hanno portato a riflettere, in questi giorni, su un aspetto collaterale (ma forse non poi tanto) che ha a che vedere con la valutazione di un’idea o di un progetto, e con i relativi processi di decision making.
Normalmente un singolo o un team che valutano un’idea o un progetto cercano di ponderarne punti di forza e punti deboli, opportunità e minacce (nell’analisi SWOT, ad esempio), vantaggi e svantaggi, costi e opportunità nella maniera più equanime possibile.
Il presupposto è che ciascuno assuma una posizione obiettiva, onesta, equidistante.
Nel caso di una valutazione effettuata da un team, la somma di queste equidistanze dovrebbe portare alla decisione migliore.
Questo è un modo di procedere.
Ne esiste, però, un altro, che ha una lunga tradizione nella storia del pensiero e, come vedremo, larga applicazione.
Si tratta del metodo basato su tesi, antitesi, sintesi.

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L’inner game della comunicazione in pubblico

Su HBR Italia di gennaio/febbraio, un articolo di Nick Morgan intitolato “Come diventare grandi speaker“.
L’autore parte dall’assunto che anche il discorso meglio preparato e pronunciato (e tecnicamente più valido) non può sfuggire al rischio di apparire non sincero e “artificiale”.
È una tesi che sostengo spesso anch’io nei corsi di public speaking: oratori tecnicamente perfetti, chirurgici nell’applicare metodi e strategie, che però creano nell’uditorio un senso di diffidenza (non so bene perché, ma ho la sensazione che non me la racconti giusta).
Il motivo di questa diffidenza si basa sul fatto che i micro-segnali non verbali non sono controllabili da parte dell’oratore, e vengono, invece, recepiti dal pubblico.
Non c’è modo, quindi, di dissimularli con un non verbale studiato a tavolino.

Se non è possibile, dunque, nascondere una certa artificialità nei discorsi in pubblico, quale strategia attuare per apparire autentici (e, in questo momento, di fronte alla diffidenza che questa congiuntura economica suggerisce, il bisogno di autenticità è davvero alto)?
Morgan suggerisce semplicemente di ribaltare i termini della questione: invece di tentare di essere autentici, è meglio concentrarsi su come esprimere sinceramente sentimenti, motivazioni, passioni.
In questo modo il linguaggio del corpo non dovrà più essere controllato, ma semplicemente seguirà gli stati interni, rinforzando il messaggio.
E per farlo, anziché provare gesti che facciano sembrare sincero un discorso, è meglio puntare su quattro obiettivi fondamentali:

    1. Essere aperti con gli ascoltatori
    2. Instaurare un contatto con il pubblico
    3. Essere appassionati dell’argomento
    4. Ascoltare il pubblico

Il discorso, quindi, dovrebbe essere provato per quattro volte: ciascuna dovrebbe focalizzare uno di questi obiettivi, e simulare una situazione che “costringa” a dare il meglio su questo fronte.

Essere aperti con gli ascoltatori

Si potrebbe, per esempio, immaginare di fare la presentazione davanti a qualcuno con cui ci si sente a proprio agio (familiari, amici), e sentire quali sensazioni produce questa immagine mentale, per poi ricrearle nel momento in cui ci si trova, invece, davanti ad un pubblico con cui il grado di confidenza è molto meno elevato.
Da notare il fatto che il focus va soprattutto sulle sensazioni. “Non ragionateci troppo: – suggerisce Morgan – è un po’ come esercitarsi in uno swing a golf o in una battuta a tennis. Anche se potreste prendere piccoli appunti mentali su cosa state facendo, questo non deve distogliervi dal riconoscere una sensazione che potete cercare di replicare più tardi“.

È una questione, insomma, di inner game.
E dell’inner game rispetta regole e cornici, valide sia per questo obiettivo che per gli altri tre successivi.

Instaurare un contatto con il pubblico

Questa volta la visualizzazione potrebbe avere a che vedere, per esempio, con un bambino che conosciamo e che non vuole ascoltare ciò che gli vogliamo dire.
In questo modo si possono generare strategie creative per attrarre l’attenzione.
Si tratta, poi, di mantenere l’attenzione.
E in questo caso si potrebbe immaginare di voler comunicare con un adolescente (notoriamente facile alla distrazione).

Essere appassionati dell’argomento

Qui si tratta di fare emergere le emozioni di fondo, ciò che appassiona, i motivi fondanti di questa passione.
Si potrebbe, suggerisce Morgan, immaginare che qualcuno nel pubblico possa avere il potere di togliervi tutto, se non viene conquistato dalla presentazione.
(Da notare che in questo caso il processo motivazionale generato da questa visualizzazione ha a che vedere con un “allontanarsi da” piuttosto che con un “andare verso qualcosa”. Per qualcuno questo approccio potrebbe non essere appropriato. Si tratta, allora, di generare una visualizzazione più consona).

Ascoltare il pubblico

In questo caso, è bene immaginare di osservare il proprio pubblico da vicino, cogliendo gli stessi segnali non verbali che loro sono in grado di cogliere nello speaker.
Questo potrebbe portare anche a modificare il setting della presentazione, offrendo maggiori spazi allo scambio di idee e di feedback.
Naturalmente, sempre compatibililmente con il nostro obiettivo e la profilazione del pubblico.

 


Sul tema del public speaking e di come costruire una strategia di comunicazione in pubblico ho scritto un libro: Il design delle idee (Egea Editore). Più informazioni qui

 

Leadership: questione di quantità

Su Time, un interessante resoconto di una ricerca svolta alla University of California, Berkeley da Cameron Anderson e Gavin Kilduff.
Lo studio mostra come i gruppi scelgano i loro leader sulla base di quanto ogni persona contribuisce alla discussione nel gruppo, anche quando questi contributi non dimostrano una reale competenza delle persone stesse.

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La leadership secondo Barak Obama [2]

Le analisi sullo stile di leadership espresso da Barak Obama in questo periodo, naturalmente, si sprecano.
Ne ho parlato anche in questo post sul suo discorso di insediamento.
Del resto, il personaggio sicuramente merita attenzione.
John Baldoni, in un sul suo blog per Harvard Business Pubblishing, propone le sue idee.

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Bush e il linguaggio della politica

Semplificando molto, ci sono due prospettive da cui possiamo osservare i comportamenti e le decisioni: una prospettiva che potremmo definire “disposizionista” (da dispositionism), che punta l’attenzione sui fattori genetici, sull’indole (ragioni intrinseche) che determinano il comportamento, ed una prospettiva “situazionista” (da situationism), che invece punta l’attenzione sull’ambiente e le situazioni esterne che influenzano il modo di agire e di decidere.
Nel primo caso, quindi, le determinanti delle azioni sono interne alla persona, nel secondo caso esterne.

The situationist (il nome non lascia spazio ad ambiguità) è schierato dalla parte di coloro che ritengono i fattori ambientali e “situazionali” determinanti.
In questo articolo, analizza la comunicazione di George W. Bush.

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Self-promotion

Daisy Wademan Dowling su Conversation Starter di Harvard Business Publishing lancia una provocazione interessante, in un breve articolo.
Il titolo: “Come vendere te stesso quando il tuo lavoro è a rischio“.

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Speaker: ecco la classifica

Bert Derek, esperto di comunicazione ed autore di alcuni libri sul public speaking, ha pubblicato la sua classifica dei migliori e peggiori comunicatori del 2008.
Sul suo post trovate le motivazioni ed una serie di video con cui potete confrontare stili, tecniche, impostazioni, contesti molto diversi tra loro e piuttosto istruttivi.

Primo posto, scontato, per Barak Obama, poi:

  1. Tim Russert
  2. Randy Pausch
  3. Colin Powell
  4. Mike Huckabee
  5. John Chambers
  6. Sarah Palin
  7. I nuovi comunicatori: Nancy Duarte, Garr Reynolds, Seth Godin Guy Kawasaki
  8. Tina Fey
  9. Anderson Cooper

I peggiori

  1. George W. Bush
  2. Richard Fuld
  3. Rod Blagojevich
  4. Elliot Spitzer
  5. Roger Clemens
  6. Sarah Palin (sì, la stessa che sta nella classifica dei migliori)
  7. Dan Rather
  8. Al Davis
  9. Rosie O’Donnell
  10. John McCain

La classifica è stata ripresa da Garr Reynold di Presentation Zen (citato, tra l’altro, nella classifica di Bert Derek).
Reynold arricchisce la lista con altri speaker, e tra questi Marco Montemagno (con particolare rilievo). Complimenti Marco!

 


Sul tema del public speaking e di come costruire una strategia di comunicazione in pubblico ho scritto un libro: Il design delle idee (Egea Editore). Più informazioni qui