Trend nella formazione manageriale

Come ho accennato, su HBR Italia di aprile è stato pubblicato un rapporto sulla formazione manageriale.
Gli interventi di esponenti di alcune delle business school più prestigiose danno un’idea di quali dovrebbero essere i trend della formazione manageriale per i prossimi anni.

Ecco alcuni tra i trend delineati.

David Yoffie della Harvard Business School:

  • Lo sforzo di creare una customizzazione più spinta nei contenuti formativi
  • La tendenza a combinare l’istruzione d’aula con quella specifica sul campo
  • L’uso di coach per fare in modo che gli studenti possan ocontare su un approccio molto individuale e su un’ampia assistenza

Santiago Íñiguez dell’Instituto de Empresa Business School, di Madrid:

  • L’istruzione online continuerà a crescere e a migliorare la propria qualità
  • La globalizzazione dell’alta formazione, insieme alla progressiva concentrazione nel settore delle business school, porterà alla scelta tra due modelli:
    • la scuola diversificata, che offre una gamma completa di programmi
    • la scuola focalizzata, che offre solamente programmi Mba e la formazione executive.
  • L’enfasi passerà dal rigore accademico alla rilevanza della ricerca per il mondo imprenditoriale
  • I Consigli delle business school saranno più eterogenei e includeranno non solo docenti, ma anche professionisti, così come laurati in discipline correlate, come la sociologia o gli studi umanistici
  • Ci saranno operazioni di concentrazione tra le business school

Pierre Tapie della Essec Business School di Parigi:

  • La questione della Corporate Sociale Responsibility (CSR) diventerà centrale in qualsiasi formazione manageriale

Boris Porkovich dello IUM (Principato di Monaco)

  • Una revisione dei curricula che motivi gli studenti a riflettere, analizzare, ideare o risolvere i problemi
  • Una pedagogia strutturata secondo i principi guida del "learn-by-leaving", con la creazione di esperienze formative internazionali "sul campo"
  • Una riduzione delle dimensioni delle classi per favorire lo sviluppo personale e la formazione individuale
  • La creazione di partnership e l’enfatizzazione dei tratti comuni delle istituzioni partner attraverso gli scambi individuali

 

Bisogni formativi

Spesso la progettazione di un percorso di formazione deriva dal fatto che un teamleader lamenti una scarsa propensione da parte dei collaboratori all’indipendenza e all’assunzione di responsabilità.
Che fare, allora?
Formarli, è spesso la risposta.
E così si riempiono aule (sia aziendali che interaziendali).
Ma quali possono essere le cause della scarsa propensione di cui sopra?

Provo ad abbozzare una risposta. Le cause possono essere di due tipi:
– le persone non posseggono le capacità necessarie a svolgere i compiti
– le persone non sono disponibili a svolgere i compiti.
Naturalmente, le due cause possono anche convivere: le persone non sono nè capaci nè disponibili.
E la mancanza di disponibilità, a sua volta, può avere cause diverse.
A me ne vengono in mente due:
– mancanza di autostima (non sarei in grado)
– mancanza di motivazione (chi me lo fa fare?)

E’ chiaro che, per ciascuno di questi casi, è necessaria un’azione formativa specifica: alla mancanza di capacità si ovvia con una formazione mirata a fare acquisire le skill necessarie a svolgere i compiti; alla mancanza di disponibilità è necessario dare risposte diverse (la scarsa autostima necessita di sostegno, la scarsa motivazione di incentivi, naturalmente non necessariamente economici).
Credo che a molti formatori sia capitato il caso di ritrovarsi in aula persone capaci, ma non disponibili. E, di solito, sono situazioni complicate da sbrogliare: di certo non è puntando sul trasferire nuove capacità che si cava il ragno dal buco.
Anzi, per dirla tutta, in questi casi spesso la richiesta di formazione serve da alibi per non andare più a fondo nell’analisi sia del grado di maturità del collaboratore, sia dello stile di leadership del teamleader.

A proposito di domande, quindi, chiedersi da dove venga la mancanza di indipendenza e di iniziativa, mi pare sia un buon inizio, specie per un formatore o per un teamleader. Siete d’accordo?

Livelli di apprendimento

Chris Argyris pone una distinzione interessante in termini di apprendimento. Gli individui operano sulla base di una propria mappa mentale, di un modello interpretativo di riferimento (frutto di esperienza e di apprendimenti precedenti), dal quale vengono dedotte le regole di azione in una determinata situazione o in un determinato contesto.

Se i risultati ottenuti non sono in linea con i desideri e le aspettative, possono generarsi due tipologie di apprendimento:

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Single loop learning
Vengono modificate le regole dell’azione, alla ricerca di regole più efficaci, ma sempre all’interno dello stesso modello di riferimento.

Double loop learning
Vengono messe in discussione non soltanto le regole per l’azione, ma anche gli assunti che stanno alla base del modello di riferimento, portando, quindi, al cambiamento anche radicale delle regole per l’azione.

Naturalmente, più è forte il modello di riferimento, più è difficile innescare un double-loop learning.

All’interno del discorso sulla leadership di cui stiamo parlando in questo periodo, credo che una delle responsabilità del leader sia quella di riconoscere quando non è più sufficiente un single-loop learning e, quindi, è necessario mettere in discussione i modelli di riferimento.

E voi, avete avuto esperienze di apprendimento che hanno messo in discussione i modelli di riferimento?

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Cultura della formazione

Che la formazione in Italia non sia pratica diffusa, non è notizia nuova. Siamo, secondo i dati riportati da "L’impresa" di marzo, sestultimi in Europa (quella a 25, s’intende). Solo 24 aziende (con oltre 10 dipendenti) su 100 investono in formazione. E a pagina 97 della stessa rivista si può leggere un’intervista al presidente di AIF  (Associazione Italiana Formatori) Pier Sergio Caltabiano. Il titolo riassume il suo pensiero: "Bravi formatori, ma manca un terreno fertile".
La tesi, chiara, è che, proprio in virtù del fatto che il mercato non è ampio, in Italia non c’è posto per l’improvvisazione e per professionalità mediocri tra i formatori. La qualità dei formatori italiani sarebbe, dunque, alta.
Due le ragioni che impediscono lo sviluppo di un’adeguata cultura della formazione:
1) la dimensione media delle imprese: le piccole e piccolissime imprese, che spesso soffrono di "autoreferenzialità"
2) la mancanza di una adeguata politica di defiscalizzazione e la latitanza a livello di governance pubblica sul capitolo degli investimenti dedicati alla formazione

Non posseggo un punto d’osservazione privilegiato come quello di Caltabiano. Mi lascia, però, un po’ perplesso questo atteggiamento (che ho ritrovato altre volte in AIF, di cui pure sono socio) per cui i bravi formatori italiani sarebbero "voci che gridano nel deserto". Per lo meno, se anche così fosse, c’è da dire che proprio i formatori dovrebbero essere i primi a trovare mezzi adeguati per promuovere la cultura della formazione. Cosa (quella di trovare mezzi adeguati per promuovere una mentalità e una cultura) che, peraltro, spesso ci vantiamo di insegnare…

MBA al top

Il Financial Times ha pubblicato la classifica dei migliori MBA del mondo.

Ecco le prime venti posizioni:

  1. University of Pennsylvania: Wharton – U.S.A.
  2. London Business School – U.K.
  3. Columbia Business School – U.S.A.
  4. Stanford University GSB – U.S.A.
  5. Harvard Business School – U.S.A.
  6. Insead – Francia / Singapore
  7. MIT: Sloan – U.S.A.
  8. IE Business School – Spagna
  9. University of Chicago GSB – U.S.A.
  10. University of Cambridge: Judge – U.K.
  11. Ceibs – Cina
  12. Iese Business School – Spagna
  13. New York University: Stern – U.S.A.
  14. IMD – Svizzera
  15. Dartmouth College: Tuck – U.S.A.
  16. Yale School of Management – U.S.A.
  17. Hong Kong UST Business School – Cina
  18. HEC Paris – Francia
  19. University of Oxford: Saïd – U.K.
  20. Indian School of Business – India

Una sola business school italiana: SDA Bocconi, che scende dalla 41esima alla 48esima posizione.
Si tratta dell’unica italiana ad essere presa in considerazione dal FT perché è la sola che nel 2004 (anno di diploma preso in considerazione per questa indagine) era in possesso del marchio europeo di qualità Equis.
Nel 2007 anche MIP – Politecnico di Milano ha ottenuto l’Equis. Entrerà, quindi, nella lista dei candidati fra tre anni.

Approfondimenti interessanti sul Job24, oltre che, naturalmente, su Financial Times.

James G. March [2]

Sempre nell’intervista a James G. March su Harvard Business Review Italia, citata nel post precedente:

Domanda: Lei stesso è un poeta. Perché scrive poesie?

Risposta di March: Non so bene perché scrivo poesie. Non sono neppure sempre sicuro che si tratti di poesie. Hanno a che fare con l’amore per la bellezza e la grazia della vita, oltre all’amore per la sua efficienza o efficacia. Penso che siano la bellezza della razionalità e la sua utilità che mi attraggono. E’ la bellezza delle emozioni e dei sentimenti che suscita il mio interesse. La poesia è un modo per contemplare e aumentare questa bellezza, ma anche l’assurdità della sua presenza nelle pattumiere della vita. La poesia celebra i sensi; celebra i sentimenti in modi che altre cose non sanno fare. E’ anche un luogo dove si può giocare con lo splendore, il suono e la combinazione tra le parole. E di solito questo non si fa in altri generi letterari.

E’ bello incontrare poesia e bellezza dove non te le aspetti. Nello scrivere saggistico, per esempio.
Adoro la scrittura porosa, dove narrativa, poesia e saggistica si intrecciano e dove sono immagini, suoni, sentimenti (grazia, insomma) a consegnarti i concetti.

James G. March [1]

Su Harvard Business Review Italia, numero 5, Novembre 2006, un’intervista con James G. March.

Bel personaggio. Di quelli che parlano e ti dicono qualcosa di te, di quello che fai e, se stai ben attento, di quello che sei.

A un certo punto, a proposito della consulenza:

Nessuna organizzazione può funzionare bene se le sue toilette non funzionano, ma io non credo sia compito mio trovare soluzioni ai problemi di business. Se un manager chiede a un consulente accademico cosa fare e questo gli risponde, il consulente dovrebbe essere licenziato. Nessun accademico possiede l’esperienza necessaria per conoscere il contesto di un problema manageriale abbastanza bene per poter fornire un consiglio specifico su una situazione specifica. Ciò che un consulente accademico può fare è dire alcune cose che, se associate alla conoscenza che il manager ha del contesto, possono condurre a una soluzione migliore. E’ la combinazione tra conoscenza accademica e conoscenza empirica, non la sostituzione dell’una per l’altra, che produce un miglioramento.

Mi pare che tutto questo abbia a che fare anche con il mio mestiere di formatore.
Se, durante una sessione formativa, qualcuno mi chiede che cosa fare, ed io gli rispondo, dovrei essere licenziato.