Precari
Metto mani e piedi su un terreno non mio, con rischio di banalità. Lo faccio, più che altro, per fissare alcuni pensieri.
Le scorse settimane sono stato esposto, forse come mai mi era successo prima, al senso di precarietà che è il filo rosso nel tessuto delle vite di tutti noi. Non solo gli eventi di Parigi. Anche questioni più personali e vicine nello spazio.
Mi è tornato in mente un episodio che è raccontato nel libro “Cosa tiene accese le stelle”.
Mario Calabresi riporta una conversazione in cui Umberto Veronesi ha raccontato:
All’inizio degli anni Trenta abbiamo conosciuto la povertà: per andare a scuola facevo quasi cinque chilometri a piedi, con i pantaloni corti anche d’inverno. Mi ricordo un pomeriggio nei campi, la mamma incontrò una vicina che non vedeva da tempo e le chiese come andava. “È dura,” rispose quella “siamo in miseria, ma per fortuna mi ha aiutato la croce, si è portata via i due bambini più piccoli, due bocche in meno da sfamare.
La lontananza che sentiamo verso la frase detta dalla donna è la misura delle grandi conquiste degli ultimi (diciamo) settant’anni (dal secondo dopoguerra in poi).
Lo stesso Veronesi chiosa:
Ero un bambino anch’io e non ho mai dimenticato queste parole: una madre sollevata perché le sono morti due figli. Rimasi terrorizzato. Non saprei che altro dire. Abbiamo fatto tanta strada e non abbiamo nulla da rimpiangere.
Centralità dell’individuo e dei suoi diritti, ruoli e affettività nella famiglia, investimento emotivo sulla genitorialità, ma anche aumento della speranza di vita e qualità della vita stessa.
Conquiste e valori, nulla da dire. Tanta strada e nulla da rimpiangere, certo.
Tutto questo, però, lo abbiamo pagato con una moneta (fra le altre): la perdita della capacità di convivere con il senso della precarietà nostra e di chi ci sta attorno. Il valore dato alla vita rende complicato constatare come questa è appesa a un filo che si può anche spezzare, qualche volta per un accidente, qualche altra per una volontà omicida. Non lo era altrettanto, evidentemente, nei tempi dell’episodio narrato da Veronesi, quando povertà, malattie e pericoli rendevano l’incertezza del futuro strutturalmente connaturata alla vita dei più.
Non so se sia utile andare oltre nel discorso: non vorrei che si pensasse che siano le conquiste e i valori ad essere messi in discussione. No, mai.
Solo una cosa mi sono domandato in questi giorni: non è che una maggiore consapevolezza della nostra precarietà faccia parte di quel bagaglio che ci sarà indispensabile, come individui e come comunità, per affrontare i tempi che ci aspettano?
Mi sono ricordato di Paolo di Tarso: quando sono debole, è allora che sono forte.
” non abbiamo nulla da rimpiangere ”
” precarietà ”
” quando sono debole, allora sono forte ”
” valori e conquiste ”
Uno stato d’animo consapevole, una situazione, un teorema di dubbia dimostrazione, riferimenti immortali e cambiamento continuo.
Sappiamo da dove siam partiti e cosa eravamo. Siamo consapevoli del luogo dove siamo arrivati. Possiamo e dobbiamo misurare la strada percorsa, registrarla e inserirla nel data base per il prossimo progetto. La memoria.
Una adolescenza è precaria perchè una maturità precoce è sempre dietro l’angolo per svariati motivi; così come uno stato familare è precario a causa di una semplice banale e improvvisa libidine che rompe un legame più o meno consolidato.
La vita è precaria come le vite dei morti che alimentano le statistiche degli incidenti casalinghi o sul lavoro o, ancora, sulle strade. Ma meno precaria in un aereo perchè essendo sospeso per aria come per una magia che forse non comprendiamo ancora, la Safety è stringente e rende la vita meno precaria.
Se parliamo di precarietà del lavoro come fatto nuovo, inesorabile allora le conquiste vanno discusse e riviste. Forse in quelle conquiste abbiamo seminato noi stessi il germe della precarietà. Inconsapevolmente certo, ma sicuramente non abbiamo valutato i rischi che accompagnano ogni conquista.
La conquista implica la sottomissione di una delle parti. Provvisoriamente. Una volta gli sconfitti diventavano alleati se eri in grado di dargli ciò che non avevano. L’impero Romano ha costruito così una civiltà che ancora oggi vive su taluni banchi di scuola e forgia taluni individui. La memoria è l’antidoto alla precarietà.
La precarietà è il tempo. Non il tempo scandito inesorabilmente dai nostri orologi che segnano l’eterno, seppur precario ,movimento del pianeta.
No. Il tempo delle persone che vogliono fare, progredire e svilupparsi
Il tempo degli uomini che devono fissare le regole per fare , progredire e sviluppare.
Se questi due tempi non si incontrano come le 24 ore del nostro orologio e la rivoluzione completa del pianeta, allora la precarietà non è più un rischio. E’ incertezza continua, frustrante. Crea rassegnazione e genera impotenza più che debolezza.
Se sono debole non sono forte. Sono morto.
Se la situazione nella quale mi trovo è una situazione di debolezza di fronte a circostanze o persone in una posizione di relativa forza, allora devo analizzare la situazione. Devo attivare la memoria. Rovistare i casssetti del vissuto. Individuare quante forze mi sono rimaste e quanto sono capace di utilizzarle. Questa è e sarà la mia forza. Chiedere aiuto ad altre simili esperienze. Tirare fuori un’idea e crederci.
Generare opportunità dalla crisi è la forza dell’intelligenza; l’orizzonte di chi si trova in una posizione di debolezza ma ha il cassetto della memoria più o meno pieno.
L’uomo debole non ha memoria; non ha vissuto consapevolmente.
La precarietà è il rischio. E il rischio è parte integrante di un progetto.
ogni volta che mi capita di leggere le tue parole, sento che mi hanno regalato qualcosa, torno ai miei pensieri con qualcosa in più, come una nuova finestra aperta, una prospettiva che sposta il mio sguardo e così allarga il mio orizzonte
Grazie
Grazie a te, Giulia, davvero!