Natale, primo pomeriggio
Seconda narrazione, dopo “La paura è nemica facile“. L’esplorazione, qui, ha a che vedere con il dialogo. E con un’intelligenza, a suo modo, precoce.
Per leggere potete scaricare il file, nel formato che preferite (nel dubbio, scaricate il .pdf), oppure leggere direttamente il testo da questo post.
Come sempre, alla fine del post, lo spazio per commenti, se ce ne sono, e per critiche.
********************************************
Natale, primo pomeriggio
Un incontro in forma di dialogo, o viceversa
![]() |
Scarica in formato .pdf (leggibile su quasi tutti i dispositivi) |
![]() |
Scarica in formato .mobi (leggibile su Amazon Kindle) |
![]() |
Scarica in formato .ePUB (leggibile sulla maggior parte degli e-book reader) |
Natale, primo pomeriggio
«Ha un nome, quell’attrezzo?»
«Sei sicuro che sia quello che vuoi sapere? Il nome di questo attrezzo?»
«No. Per la verità era un pretesto. Voglio capire che cosa ci fa, lei, al lavoro, il giorno di Natale».
«Già meglio, questa, di domanda. I presupposti: meno scontati. Che tu me lo chieda presuppone ci sia qualcosa di strano nel fatto che un uomo lavori il giorno di Natale. È così, ragazzino? Trovi strano vedere un uomo lavorare in un giorno di festa?»
«Non sempre. Intendo che certi lavori è normale che ci sia qualcuno che li fa anche il giorno di Natale. Sono cose che non se ne può fare a meno. Prendiamo per esempio i medici, oppure quelli che guidano gli automezzi per spalare la neve, che se viene giù forte, allora devono uscire e lavorare anche se è il giorno di Natale; e poi, sì, anche quelli che fanno la tivù, che se c’è qualcuno in casa da solo, allora gli possono dire che, in qualche modo, ci sono loro a fargli compagnia, a Natale, e, se sono bravi, lui ci potrebbe anche credere.
Ma quelli che stanno in una bottega a riparare un vecchio armadio, no. Quelli non è normale che lavorano, oggi. Quelli la bottega la chiudono e vanno a pranzare alle tavolate lunghe di parenti, o, se sono soli, stanno davanti alla tivù».
«Non lo sto riparando. Quello che faccio si chiama restaurare. Hai idea della differenza?»
«Credo di sì. Mi scusi».
«E quindi quello che vuoi sapere è questo: che ci fa un vecchio a restaurare un armadio il giorno di Natale? È questo che ti interessa, davvero?»
«Mi piace capire perché gli adulti fanno certe cose».
«E dimmi, perché non ci sei tu seduto a un tavolo: parenti, dolci, cose da Natale?»
«Ci sono stato fino a poco fa: mio padre mi lascia scendere in strada, purché abbia mangiato tutto il primo. Tanto sa che non toccherò più nulla. Me ne starò lì a fissarlo mentre parla. Credo non gli piaccia, quando lo fisso. Lo sa, una volta ho perfino pensato che gli metto paura».
«E quest’oggi, che cosa hai pensato, una volta finito il primo?»
«Oggi sono sceso in strada».
«E ti sei messo a fissare me».
«Faccio paura anche a lei?»
«Questa è proprio buona. Sono vecchio, ma mi tengo in forze, sai. E tu peserai cinquanta chili da vestito. Se provi a farmi del male, saprò come difendermi».
«Ecco un’altra cosa che non capisco degli adulti: quando parli di paura, la loro prima mossa è quella di misurare le forze. Se si sentono più forti, allora non hanno paura. Altrimenti sì».
«Invece?»
«Non lo so, ma mi sembra una cosa più complicata di così. Io, per esempio, a volte non ho paura anche quando affronto delle cose più forti di me. Lo sa: crescendo, succede di dover affrontare delle cose forti. Ma io lì non ho paura. Invece, ci sono dei momenti che mi spavento per un niente. Poi cerco di calmarmi, ma prima era paura».
«Io la vedo così: la paura non è questione di pesi e forze. Di equilibri, piuttosto. Un po’ come camminare su un filo, e quel filo è il tuo volere. Perché se una cosa la vuoi troppo, allora hai paura di non averla o di perderla, se la vuoi troppo poco, hai paura che non basti, di essere sbagliato. Se, invece, la vuoi il giusto, allora il volere supera la paura di perdere, e sei pronto a combattere per questa cosa. Perché è una cosa giusta per te. E tu allora diventi, non so se si capisce, giusto per lei».
«Sì, un po’ si capisce. Magari quando cresco la capisco anche meglio».
«Visti questi presupposti, la cosa da chiederti sarebbe quale tipo di paura gli fai, a tuo padre. Quella del troppo oppure quella del troppo poco?
Ma non son cose da domandare a uno sconosciuto, specie se giovane, e specie se è il giorno di Natale».
Fu in quel momento che il ragazzino mosse, per la prima volta, la testa, a disegnare un flesso in quella conversazione.
«Me lo dice sempre anche lui, che certe domande non si fanno. Non siete così diversi come mi era sembrato, tu e mio padre».
Quell’accusa schioccò negli occhi dell’uomo come la frusta del domatore quando vuole ricordare che sì, è proprio il gesto che hanno provato mille volte, in pomeriggi di pioggia, sulla pista umida, e in quelli di sole, quando sotto il tendone fa così caldo che la tigre se la potrebbe anche ricordare, l’Africa, se mai ci fosse stata. È proprio quello, il gesto. E adesso è tempo di mostrarlo al pubblico.
Così, uno schiocco.
Come con lei, quella sera rientrando che non si era neppure svestito il camice, per attenuare la rabbia del ritardo, e l’aveva trovata al tavolo, le valigie già pronte. Aveva atteso solo per dirglielo in faccia, che inferno erano stati gli ultimi anni dentro a quella casa. Che sapesse. No, non era vendetta. Conservava, disse, un affetto sufficiente per fargli capire di chi era stata la colpa. Era lui ad aver tradito il desiderio di qualcosa di diverso dal degrado quotidiano che incrinava le pareti e con loro gli abitanti di tutti gli altri appartamenti su quel pianerottolo. Noi no. L’avevi promesso. E invece. Almeno così lo sai, magari ci tiri fuori qualcosa di buono, per te.
E anche quella volta che si era presentato davanti al letto di quella giovane donna. Non c’era più niente che potesse fare, per la sua gamba. Aveva provato tutto. Adesso non restava che arrendersi.
Sei come tutti gli altri. Mi avevi detto che ce l’avresti fatta, che la mia, di gamba, la potevi rifare. Anzi, sarebbe stata meglio di prima. Mi hai inchiodato qui per dei mesi. E adesso ti arrendi? Rassegnato, ecco cosa sei. Rassegnato. Come tutti, qui dentro. È che il dolore voi lo vedete soltanto, e allora vi potete permettere il lusso della rassegnazione.
Io no, lo capisci?
No, no che non lo capisci. E pensare che mi eri sembrato diverso.
La difficoltà di levare un grumo di vernice dal capitello recise la bava di quel pensiero. Il ragazzino era ancora lì, immobile di una immobilità che sì, confermato, faceva paura. Non era un qualcosa di fisico. I pensieri, piuttosto. Come quando schiacci il tasto sul videoregistratore, e quelli dentro al televisore restano lì, sospesi. Non sono i corpi ad essere fermi. Sono i pensieri. Uguale, il ragazzino.
«Che ci fai ancora qui?» la cosa, sbagliata ma unica, che gli venne da chiedere in quel momento.
Fu come aver premuto di nuovo il dito sul tasto: riprese da dove si era interrotto, anzi, da un secondo prima della sua domanda.
«Perché restaura armadi?»
Notò la precisione: armadi. Era l’unico, a memoria, che avesse rilevato subito la sua specialità e che l’avesse accolta senza l’ombra dello stupore. Lui restaurava soltanto armadi. In questo campo ristretto, in compenso, non c’era partita che rifiutasse: non ne faceva questione d’età, né di stato di conservazione e, quindi, di difficoltà, né di committente né, a ben vedere, di prezzo. Si deve essere selettivi in un’unica, scelta, direzione, pensava. Il resto è pretesa di troppo e, fosse anche solo per questo, nociva.
«Ho conosciuto due tipi di uomini soli: quelli che cercano di fare del buono portando il nuovo e quelli che ci provano conservando il vecchio. Io sono diventato uno di quelli del secondo tipo».
«Me lo insegnerebbe?»
«Oggi?»
«Non tutto. Torno qui ogni Natale, e poi altre due o tre volte, durante l’anno. Abbiamo tempo».
«È roba da vecchi. Non ti piacerebbe».
«Sempre meglio che starmene seduto a tavola. Ai pranzi delle feste non preparano mai niente che mi piace per davvero. Voglio dire, non c’è la pasta al pomodoro, e nemmeno le uova fatte al tegamino».
«È che la gente pensa che per stare bene a tavola bisogna cucinare piatti elaborati e dire cose banali».
Rilevò il fatto che, se teneva lo sguardo lontano da quel ragazzino, quel che faceva era parlargli come a un adulto. Gli parve giusto e fu per questo che, prima di formulare una domanda che gli pareva decisiva, fissò un ricciolo che un tarlo aveva bucato proprio nel centro della spirale.
«E, dimmi, che cosa ti aspetti di imparare?»
«A mettere in fila le cose, soprattutto. È per questo che mi sono fermato a guardarla. Stava mettendo in fila le cose. Pareva che niente fosse fatto a casaccio. In questo mi è sembrato diverso da mio padre: lui pare che faccia tutto, sempre, a casaccio. Allora ho pensato che se una cosa è fatta di gesti messi bene in fila uno dietro all’altro, la si può imparare: si tratta soltanto di ricostruire la sequenza, e poi di esserle fedele, senza salti, senza fare troppo di testa tua».
«Sì, ricostruire. Si chiama protocollo, la sequenza, nel lavoro che facevo».
«E in questo, di lavoro, come si chiama?»
«Non ha un nome. Però a me è sempre sembrata distante da un protocollo. È che mi pare ci siano due modi diversi di mettere insieme i gesti. C’è quello di chi possiede un sapere certo, che orienta. La mappa la puoi chiamare in molti modi. Uno è protocollo. Questo è quello che facevo.
Poi ci sono quelli che vanno alla scoperta di una storia, di ciò che ha fatto diventare quell’oggetto quello che è; probabilmente perché pensano che così, poi, possono farlo ritornare quello che era. Oggi è questo, il mio lavoro. Puoi capire che non è molto diverso dallo spalare neve. Far ritornare qualcosa quello che era può essere altrettanto urgente che ripulire una strada, salvare da una ferita del corpo, come un medico, o da una di quelle che stanno dentro, come, dicevi, a volte può fare la tivù.
Ecco.
Questa è la prima cosa da imparare. La differenza».
«È già la terza volta».
«…»
«Che spacca le cose a metà. Due tipi di paura, di uomini, due modi di mettere insieme i gesti. O di qua, o di là. Ci crede davvero, che sia così, o è il suo modo di raccontare le cose?»
«Ottima domanda. Per i presupposti, intendo. Non la so, la risposta. Però so che è quello che stai facendo anche tu, adesso che mi lasci due sole possibilità tra cui scegliere.
Si restringe il campo, per così dire».
«Ed è una cosa che va bene?»
«Mi è sempre sembrato un buon modo per rendere la vita più complicata del necessario, ma meno del superfluo».
«Un po’ come la storia di riparare solo armadi».
«Restaurare».
«Già, restaurare».
«Sì, un po’ così».
«Non mi ha ancora detto se me lo insegna».
«No. Però potrai tornare quando vorrai, e guardarmi lavorare. Risponderò anche alle tue domande, ma solo a quelle per cui ci sono solo due risposte possibili, e che non siano sì o no. D’accordo?»
«D’accordo. Adesso vado, mio padre mi chiama».
Gli sarebbe parso strano, visto che fuori la via si era animata, come succede nei pomeriggi di festa, di chi dopo pranzo prosegue la conversazione per strada, di solito per lasciare agio alle padrone di casa di rassettare. Gli sarebbe parso strano, se non fosse che lo conosceva bene, quel filo di pensieri che unisce un padre a un figlio e che aveva permesso al ragazzino di seguire il capo della voce del padre e di isolarlo dal groviglio degli altri, di sentirsi chiamato. Lo conosceva, quel filo, pur se da un capo soltanto.
Si avviò verso la porta, il ragazzino, quasi neppure volesse salutare. Poi, come se quella fosse l’unica cosa possibile da dire:
«Cinquantadue, comunque».
«Cinquantadue cosa?»
«Ne peso cinquantadue, di chili. Nudo».
«E questa è una sgorbia, profilo raggiato».
Sollevò l’attrezzo come un saluto.
…
«E io faccio quel che posso, come tuo padre» aggiunse e mezza voce, quando fu certo che non poteva più sentirlo.
Stava meglio, come non succedeva da un po’.
che bello questo racconto e profondo, voglio rileggerlo e rileggerlo ancora, Grazie