Presidio narrativo

La Bibbia è un libro pieno di storie bellissime.
La mia preferita è quella di Giuseppe, figlio di Giacobbe.
Se ce n’è una ben costruita e dall’architettura inattaccabile, però, è la storia di Mosè e di come gli Ebrei si liberarono dalla schiavitù d’Egitto.
Gli ingredienti ci sono proprio tutti: la liberazione dall’oppressione, il Viaggio dell’Eroe, la suspence, il soprannaturale, ma anche l’umano nel suo dispiegarsi più variegato e avvincente.

Lo dico perché qualche giorno fa si è parlato di questa storia con un gruppo di studenti.
Si stava discutendo di una cosa che abbiamo definito un trend, ma solo perché non abbiamo trovato una parola migliore.
E il trend ha a che vedere con la “narrativizzazione” della comunicazione. Con la pervasività dello storytelling, per dirla in un altro modo.
Cercavo di mostrare quanto le narrazioni siano diventate l’asse portante di tante, diverse ed eterogenee strategie di comunicazione.

Non essendo la prima volta che affrontavo il tema, non mi sono sorpreso nel notare che le reazioni (le più varie) hanno portato, dopo breve discussione, a formare due partiti: gli entusiasti (pochi) dello storytelling e gli scettici spaventati (i più).
I primi giù a sottolineare la potenza persuasiva della narrazione, la sua eleganza, la sua capacità di riassumere dentro ad una storia una complessità che sarebbe difficile stringere in altro modo.
In una parola, la sua bellezza.
I secondi a ribattere il carattere per lo più iper semplificativo della narrazione, il suo mirare alla pancia più che alla testa.
In una parola, la sua sostanziale falsità.

Mi sono concesso un po’ di tempo ed ho osservato i due partiti discutere e argomentare: c’è sempre qualcosa da imparare.
Poi ho interrotto con una domanda:

Ditemi una cosa. Se vi dico piramidi, qual è la prima parola che vi viene in mente, quale associazione di idee?

Schiavitù, oppressione, ingiustizia sociale, casta (e via discorrendo) le più frequenti.
E allora ho chiesto da dove, secondo loro, arrivassero queste associazioni spontanee.
Facile: dalle immagini che ci ha tramandato la storia di Mosè (eccola qui), che, proprio per la sua struttura tanto solida, ha ispirato trasposizioni cinematografiche e teatrali a non finire, arrivando ad una diffusione ampia e trasversale.

E fin qui, tutto bene.
Se non fosse per il fatto che gli storici sostengono che questa storia non trova alcun supporto nelle fonti. Non sto dicendo che Mosè non ha aperto le acque del Mar Rosso. Sto dicendo che sussistono forti dubbi sul fatto che il popolo Ebreo ci sia mai nemmeno stato, in Egitto. Ed è pressoché certo che non ci abitò da schiavo, per il semplice motivo che gli schiavi, come noi li intendiamo e come ce li ha mostrati la filmografia sull’Esodo, in Egitto semplicemente non esistevano. A costruire le piramidi, per quel che ne sappiamo, furono lavoratori liberi salariati che godevano anche di alcuni diritti fondamentali (come, per esempio, il diritto di sciopero).

Conclusione? Ne abbiamo tratte parecchie, a dire il vero, di conclusioni con la classe di studenti.
Una la voglio condividere subito (sulle altre tornerò nei prossimi giorni): la narrazione è una forma di comunicazione che va presidiata anche soltanto per un motivo (quando non ce ne fossero altri). Perché se non sarai tu a presidiarla, qualcun altro lo farà per te, con il rischio di fare la fine degli antichi Egizi che, nel nostro immaginario, sono dipinti con toni e tinte che probabilmente non hanno alcun fondamento nella verità storica.

 

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