La paura è nemica facile

La paura è nemica facile
Una narrazione in tre movimenti.
L’idea la devo ai commenti di Erri de Luca alla vita di Noè, come raccontata nel libro della Genesi.

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Come sempre, alla fine del post, lo spazio per commenti, se ce ne sono, e per critiche.

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Uno

Tra qualche momento ti dirò che tutto questo è senza astio, e, in qualche forma soltanto sua, senza dolore.
E tu non mi crederai.
Perché un ragazzo che muore con qualcuno se la deve prendere. Vedere un uomo andarsene su una barca mentre tu te ne vai a morire ti deve per forza fare incazzare.
Non io.
Niente astio.
Niente dolore.
Solo, ascolto.
Voglio vedere quella barca, sollevata, galleggiare. E poi l’occhio negli occhi di quell’uomo che sa vedere chi gli chiede aiuto e proseguire, senza aiuto.
Non sarò io a chiedere. Non mi si vedrà supplice.
Non ho paura.
La paura è nemica facile, per chi ha vinto astio e dolore.

Ho ascoltato la pioggia, e ho capito che non sarebbe finita: non era acqua che apre la terra, che rivive nella polpa del frutto, nell’occhieggiare del ruscello fra le rocce.
Questa è acqua che copre.
Un orecchio attento sente che non è generare, il gesto. Piuttosto, lavare.
No, non è qui che non mi crederai: lo si può accettare, che c’è un’acqua che nutre e una che lava, e che, se lasciato solo, l’occhio non ne distingua la differenza. L’orecchio l’apprezza, invece. Puoi crederlo, dunque, che un ragazzo abbia compreso la strage fin dalle prime gocce, quando ancora l’unico indizio era il bisbigliare, a sera, nelle tende, della pazzia di un uomo.

Ho preso cammino di buon mattino, dopo aver ascoltato la pioggia scendere per tutte le ore dello scuro.
Mi sono concesso di assecondare, per un’ultima notte, la speranza che in qualche modo ci potessimo attendere un domani. Svanito, albeggiava, l’ultimo auspicio, ho preso cammino per il sentiero che porta quassù. Ho scelto il più erto tra i passaggi, che offre in compenso alla difficoltà una vista anticipata della meta. Ha una sua giustizia, la montagna, che scambia sforzo con anticipo: chi sa affrontare il primo ne ha in cambio il secondo.

Per primo ho attraversato il giardino delle agavi, dove, fanciullo, ho perduto il mio occhio destro, e fu una benedizione.
Giocavo, come sempre, distante da altri uomini. Numerosa, invece, la compagnia delle ombre di foglie quando, nelle ore del pomeriggio che avanza, diventavano lunghe e sottili da sembrare spade. Ne sfidai una a duello. Fu vittoria, e di poca fatica. A sconfiggermi fu la foglia padrona di quell’ombra, a cui non avevo dedicato alcun interesse. Mi trafisse mentre mi accingevo a voltare le spalle al nemico per raccogliere il premio al mio coraggio: l’elogio di un padre o il bacio di una donna, a seconda dell’umore.
Mi ha lasciato due eredità, quel sangue che si è preso la vista da un occhio.
La prima, subito: il voler continuare a inseguire le ombre, che gli oggetti e gli umani che le creano sono ben meno interessanti.
La seconda, a distanza di tempo: il sapere che chi si sente menomato d’uno dei sensi poggia sugli altri, li acuisce. Avevo guardato, fino a quel giorno. Da allora, l’ascolto è diventato la mia guida nel mestiere del crescere da uomo. La profondità che manca alla mia vista è diventata abilità di stimare distanza e direzione del passo di un capretto che arranca nello sforzo di superare un muro, o di una voce che prova a nascondersi tra le tende per non essere ascoltata, o del frusciare dell’abito di una donna che si spoglia per immergersi, laggiù, nel fiume.
Quest’attitudine non lasciata sopire m’ha permesso di distinguere, già molte notti fa, lo scroscio della pioggia, e di cogliere un suono di sfida nel suo frangere la terra, che lasciava intuire lo scopo del suo viaggio ortogonale: lavare, non certo nutrire.

Passato il giardino, è la volta di punte di sassi sotto i piedi sul sentiero che porta a monte, palcoscenico di altre avventure e fantasie nei giorni d’infanzia. Fuga, oggi, ma senza speranza di salvezza: solo di rimandare, e ascoltare ancora un poco.
Non ci ero mai più tornato, su quel sentiero. Pure l’ho percorso a memoria, a piccoli tratti per non scivolare e consentirmi, così, il passo breve e costante di chi ha molta strada da fare, e tempo altrettanto.
È vero: non sarà lungo il mio tempo.
Proprio per questo, però, abbondante. Che se l’acqua m’avesse colto sulla via, poco male: ho sempre pensato che non m’importa quando morirò. Non è l’età, la vera questione.
È il gesto.
Perché il mio, di aldilà, è la ripetizione perpetua di quel gesto, minimo, compiuto nell’ultimo istante.
Ecco. È il gesto che conta. Camminare e ascoltare. Voglio che la morte mi raggiunga così: mentre ascolto e cammino. Questo voglio, per la mia eternità.

A ogni diagonale del sentiero il passo s’è fatto più silenzioso: la familiarità crescente del piede con la terra madida porta a scegliere con cura l’appoggio, a rispettare il sasso per non offendere la montagna, a lasciare soltanto le tracce necessarie. Che poi sono quelle che segnano i passaggi che hanno richiesto, per essere lasciati alle spalle, impegno, e un cambiamento del suolo: una pietra spostata, una linea sul terriccio o anche, rara, l’orma di una mano che, sulla roccia, si aggrappa per dare forza al passo lungo, quando la distanza tra i piedi rende l’equilibrio un gioco per tre.
Una sola violenza, da parte mia: ho colto una pietra non ancora toccata dall’acqua, sradicandola dal suo riparo scavato tra il tronco d’un albero e un masso che faceva da tetto. L’ho presa con me a ricordarmi l’asciutto. L’ho avvolta nella stoffa e messa nella mia tasca nascosta, quella cucita per riporre i denari, che il ladro da borseggio non avesse facilmente la meglio. Se qualcuno mi deve derubare, ho stabilito, lo voglio vedere con l’unico occhio e, di più, voglio ascoltare la sua voce mentre mi intima il male, o sentirlo aggredirmi alle spalle. Rapina l’accetto. Borseggio, no. L’anonimato mi graffia, più del male.
Ho colto una pietra, con la piccola violenza di chi coglie il fiore e sa che portare con sé la bellezza è come darle la morte, e così facendo preferisce l’uccisione alla privazione.
L’ho riposta nella tasca nascosta.
So che nessuno mi deruberà, su questo cammino.
Colui a cui la celo non vuole il mio denaro.
Con sé porterà il domani.

Prende un giorno intero, la salita. Meno se il tempo è bello.
Oggi, per via di questa pioggia, anche volontà e gamba addestrata non hanno saputo accorciare i tempi.
L’appesantirsi degli abiti penetrati dall’acqua era gesto inverso all’alleggerirsi dell’animo. Se ne potrebbe parlare come di una restituzione: ho assorbito acqua che cancella, ho restituito il peso dei rimpianti, cancellandoli a mia volta.

Soltanto uno, nell’intera giornata, l’incontro con l’umano.
Un maschio ferito, caduto da poco mentre percorreva il sentiero in direzione opposta alla mia.
Era uno di quelli che la montagna la frequentano per professione: pastore o, magari, cacciatore.
Una ferita da nulla: soltanto un graffio che dal gomito ha inciso la pelle fino al polso.
Lo aiuto a rialzarsi, dice di essere scivolato, e che va a raggiungere la sua famiglia, dopo notti in cui anch’egli ha sperato che gli scrosci cedessero campo al silenzio. Dice di temere che la sua casa sia già allagata. Forse, s’illude, c’è bisogno di lui.
Non lo sai ancora, dopo tanta vita, gli vorrei dire, che quando corriamo inseguiamo il nostro, di bisogno?
Mai di corsa, l’altrui.
Il gesto scomposto che lo ha portato a cadere è manifesto di inquietudine, non di generosità.
Non parlo. Continua a farlo lui.
Ed io, perché risalgo solo?
Non ho nessuno da raggiungere, o da accompagnare?
Morire da soli non è per tutti, ho pensato. Per me, sì.
Ho bestie da curare, a monte, che questa pioggia non durerà per sempre, e bisogna anche pensare al dopo.
Così, ho risposto. E quelle parole, dette con voce non mia, mi sono parse un buon sigillo alla mia esigua relazione con la specie.

 

Due

Un uomo taglia cedri, sul monte. Centinaia.
È pazzo, dicono, e della più contagiosa delle pazzie, quella che risucchia anche chi, solo, può aiutare a ritornare in sé. E così nell’impresa ha reso complici moglie, figli. La più contagiosa delle pazzie, quella che ti fa pensare che il mondo, quello vero, ha a che vedere con ciò che ti accade dentro. È così che un’idea diventa ossessione, nel momento in cui pensi che tutto sia lì, allora ti perdi, basta un attimo, il fatto che il mondo, quello vero, sta fuori, e qualsiasi ritratto ne disegni la mente non è che una faccia del poliedro, e tu nemmeno sai bene quale.
L’avevano pensata così, la pazzia di quell’uomo, i suoi. La faccia era quella di chi si vuole costruire un qualcosa di enorme, lassù, sulla montagna: taglia cedri e trascina e scortica e prepara bitume e leviga e accosta e inchioda e a sera, contento, guarda la sua creatura crescere come si guarda un figlio, e lo sai che il merito è tuo solo per una frazione. Il resto viene da chissà dove, come quei cedri.

Al termine del taglio, e all’inizio dell’atto di dare una forma, era parsa una casa. Allora i suoi l’avevano scambiata per la più subdola delle pazzie, quella che ti fa pensare che una tenda non basta: deve esserci legno a difendere la mia famiglia. Avevano pensato che a nulla era servita la lezione di tante privazioni: che, cioè, è chi si muove più rapidamente a sopravvivere, chi non si lega a una terra e, pur sapendone trarre frutto, non pone in lei la sua forza.
Sanno, loro, lasciarsela alle spalle, una terra, anche quando potrebbe dare molto, se il pericolo sorpassa il ricavo. Sanno che, allora, è tempo di andarsene.
Una tenda è l’abitazione di chi sa spostarsi al momento opportuno: così si sopravvive.
Pazzia di quell’uomo, la più subdola: quella di chi pensa che vi sia forza nello stabilirsi.

Poi videro la forma di quel legno che cresceva, e allora compresero: non era ancorarsi lo scopo, al contrario, andare per mare. Pensarono, così, che fosse la più banale delle pazzie, quella che confonde l’oggetto e la funzione, e mette attenzione al primo. Come i padri, che credevano fosse il sacrificio a placare gli dei e non, invece, l’atto di abbandono del donare il necessario, che porta con sé la fiducia sulla parola. E se anche il suo cuore, come qualcuno cominciava a suggerire, gli aveva bisbigliato che fosse Dio a chiedergli quel dono, come non pensare che un qualunque dio è alla funzione che vuole dirigere lo sguardo, mai all’oggetto? Tanto più il nostro, di Dio, che ci ha plasmati di fango e soffio.

Quando lo videro raccogliere cibo di ogni sorta, e poi radunare le schiere di animali, i puri e gli impuri, e assistettero al loro lasciarsi condurre, docili, alla nave, pensarono che fosse la più umana delle pazzie, quella che ti fa credere chiamato a salvezza degli altri, filo indispensabile dell’ordito, che, solo, si fa carico dell’avanzare della tela. Fu allora che smisero ogni desiderio di vederlo tornare in sé, e cessarono le visite alla montagna, che la superbia del credersi giusto fra gli empi non merita altra forma di redenzione che non sia il fallimento.

E quando lo videro, alle prime piogge, sigillare gli usci e i pertugi, pensarono che fosse la più rassicurante delle pazzie, quella che ti fa leggere conferma in ciò che accade e ti fa scegliere, nello spargersi degli eventi e dei segni, di credere a quelli che paiono una prova.

Era, invece, la più bella delle pazzie: quella che ti fa pensare di parlare con Dio, e te lo fa fare così bene che Dio t’ascolta e manda un diluvio in omaggio al tuo credere di aver compreso il suo volere. Non il giusto, si salva. Chi ha toccato Dio, nulla più.

 

Tre

Io, patriarca dell’umanità, dai miei figli tutti i figli che popoleranno la terra, dopo che le acque hanno lavato il peccato e la nuova alleanza è stata stabilita, inscindibile e suggellata dall’arco sulle nubi; io, il giusto, sono perseguitato da un sogno.
Un giovane, sulla cima della montagna, segue con lo sguardo la nave allontanarsi. Non chiede aiuto. Osserva, piuttosto, con occhio, uno soltanto, d’attenzione. Lo fa senza fretta, e, quando ottiene il rimando, sovrasta il rumore della pioggia.

Solo questo, ti chiedo. Qual è quel Dio che salva te, su quella barca, perché sei giusto e a me, ragazzo, mi manda a morire annegato quaggiù, bevuto da quest’acqua malata? Come è fatto, questo Dio? Che pensa?

E qui, in queste domande, non c’è astio né dolore. Lo so, non lo credi.
Un ragazzo che muore con qualcuno se la deve prendere.
Vedere un uomo andarsene su una barca mentre tu te ne vai a morire ti deve per forza fare incazzare.
Non lui.
Il suo è solo ascolto.
Una virata, ora, nel sogno. Lui sfugge per un istante dagli occhi e questo basta per non ritrovarlo più. Permane solo l’acqua, lorda del lavacro.
Sono certo che è un sogno, quel che narro, e non un ricordo: non ne vidi, di occhi, in quei giorni, che non fossero quelli degli ospiti nascosti nella pancia del legno che ci dava la salvezza. Stavamo chiusi tra fibre e bitume, senza chiaro da fuori. Così m’era stato comandato di costruire la barca, che non ci fossero aperture.
Pensai che fosse per tenere fuori l’acqua.
Era, invece, per tenere noi dentro.
Fu quando sentimmo la barca alzata dalla marea cresciuta fino al monte, che compresi. Quel bussare rabbioso, al legno: poteva essere l’urto d’un tronco battuto dalla corrente, o, più probabile, quello di un animale trascinato sul fondo. Cacciai, lo ricordo, il pensiero che potesse essere mano d’uomo scagliata dalla disperazione, che, per dare forza alla propria preghiera, s’è munita d’un sasso cui affidare la richiesta.
Appresi, allora, di che cosa sono fatte le pareti della prigione del giusto.

Io, patriarca cui Dio ha legato il filo più importante dell’ordito, quello che, solo, si carica della continuità della tela, sono perseguitato da un sogno. Ogni notte, senza fuga possibile.
Quanto è più facile il nemico che arriva da fuori: combattere o fuggire, le regole fondanti di una relazione banale, stabilita su una, binaria, decisione.
Contro, invece, il nemico che arriva dalla profondità dell’io, ho imparato che combattere porta solo l’allungare i tempi necessari a ritrovare il sonno, le volte, rare, in cui questo avviene. Anche fuggire è inutile: più dell’ombra si appiccica, un incubo. Per liberarsi di un’ombra è sufficiente cercare il buio. Il sogno, invece, si nutre di buio e ammorba il sole all’alba che segue.
È così che la notte apprendo di che cosa è fatto il letto della prigione del giusto.

Non voglio figli, dopo la grande pioggia. Le cateratte hanno sparso il loro seme di rovina. Io lascio che il seme creatore sia sparso dai figli che avevo già generato. Non è l’età, l’ostacolo: chi sa ancora lavorare la terra e trarne frutto può trarre frutto anche dal ventre d’una donna. Piuttosto, l’aver compreso che per quanto potrei, di nuovo, amare con amore di padre, nessuno dei miei figli saprà mai ascoltare il suono del mondo con tanta, esatta, attenzione. Mai nessuno che non sia quel giovane che vive nel mio sogno, mai nessuno mi porrà le domande per cui, oggi, avrei una risposta.
È così, ora che il sole sorge ed io posso vederlo scalare la sua montagna celeste, seduto al limitare della mia tenda, che apprendo di che cosa sono fatte le sbarre della prigione del giusto: la prigione di chi possiede le risposte alle domande che nessuno gli porgerà più.

4 commenti
  1. Cristina dice:

    Così, hai deciso. Il mio commento serve a poco, se non critica, ma davvero non mi è possibile. Scrivi in modo concorde al mio modo di leggere, in armonia con quanto ho dentro, a volte trattenuto, altre sbandierato in modo indecente. Un rapimento. Questo mi capita. E non credere che sia l’affetto a muovere il commento, piuttosto un rinnovato stupore e un riconoscere che, sì, davvero, quelle parole meritano la possibilità di una pubblicazione e di una e più e molte condivisioni. Però…pensa se si potesse anche annusare su carta!

  2. Piergiorgio Bonardi dice:

    Ciao Luca.
    Certo che a proposito del fatto di “chi fa le cose bene” non ti smentisci neanche offrendo la tua opera in tutti i formati. Io ho un kindle, ergo mi sono scaricato il mobi, non so quando riuscirò a leggerlo a causa di altre letture in corso, ma non appena riesco lo farò certamente, e ti farò sapere. Intanto comunque complimenti a prescindere, per averlo fatto!

  3. Giovanni dice:

    Alla fine della lettura del tuo scritto, ho pensato se scriverti qualcosa oppure no. Non vorrei che il tuo esitare nel pubblicare qualcosa venga amplificato :).
    Già perchè questo racconto è scritto bene, fin troppo per me! Un po’ troppo ritorto su se stesso, troppo cavilloso. D’altra parte sono tante le provocazioni che dai e sotto innumerevoli forme.
    Per cui: bravo! Continua!
    Anche se probabilmente non sarà mai una modalità di scrittura che riuscirò ad apprezzare completamente.
    Ma la mia non è che una piccola goggia! 🙂 Ciao.

  4. Luca Baiguini dice:

    Grazie a tutti, davvero, per i commenti, che mi danno modo di riflettere e trovare strade nuove, forse. Spero “mie”.

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