Workaholic
Workaholics, ossia persone per cui lavorare non è una scelta, ma una necessità interiore a cui non si può sfuggire.
Su Mente e Cervello di marzo, un articolo di Andrea Castiello d’Antonio illustra caratteristiche e rischi di questa patologia.
Il tratto più subdolo della dipendenza da lavoro è il suo essere congruente (al contrario della maggior parte delle altre dipendenze) con le aspettative sociali: essere produttivi, infatti, è una delle attese più pressanti della società in cui viviamo.
Figure che sacrificano il loro intero essere sull’altare del lavoro fanno comodo a molte realtà organizzative, talmente orientate all’obiettivo da non stare a sottilizzare sulla salute e la sicurezza dei propri lavoratori, sul loro livello di stress, e, in fin dei conti, sulla qualità della vita (ma anche del lavoro) di questi collaboratori.
Il “dipendente da lavoro”
- ricava un vero piacere dall’essere sempre impegnato, anche se potrà lamentarsi del fatto che “senza di lui le cose non vanno avanti!” e che è costretto a occuparsi di tutto.
- tollera poco e male le persone che non vivono come lui il rapporto con il lavoro
- incide pesantemente sul clima interno, esercitando sugli altri la pressione che egli esercita su se stesso
- spesso è perfezionista, rigido, focalizzato su ciò che non va
- è distante dagli aspetti “umani” del rapporto lavorativo (analfabetismo sentimentale)
L’organizzazione spesso tollera o addirittura apprezza questi profili, specie se la sua cultura non presta la dovuta attenzione alla salute ed al benessere organizzativo, scambiando la dipendenza da lavoro con affezione e identificazione con la cultura aziendale. In realtà, il workaholic è caratterizzato da complusività, ripetizione, inserimento in un circolo vizioso nocivo per la salute, focalizzazione totale sulla propria identità professionale.
Molto interessante, non sapevo dell’esistenza di un simile patologia. In effetti di solito si è portati a considerare positivamente il “vizio di lavorare”, perlomeno per me è così, forse per cultura personale, o per insegnamento ricevuto sin da bambino. Ho sempre visto la cosa più come un pregio che un difetto, forse anche perchè mai l’ho vissuto agli estremi da te indicati. Oggi però l’ho visto sotto un punto di vista completamente diverso, qualcosa di nuovo a cui non avevo mai pensato. Grazie.
Grazie Luciano per il tuo commento.
In effetti, il confine tra una sana etica del lavoro e una forma di dipendenza non è così facile da tracciare. Credo, per riprendere il ragionamento sopra, che si tratti di capire quale grado di controllo la persona mantiene rispetto al proprio lavoro.
Caro Luca,
sul tema ti consiglio il libro di Cesare Guerreschi. Veramente bello ed esaustivo.
Grazie per il suggerimento!
Se qualcun altro fosse interessato, il libro suggerito è questo
..mio padre è sempre stato così…e il problema è che lo sto diventando anch’io
Enrico fatti aiutare prima di perdere il contatto con la realtà… quello che voglio dire è che c’è sempre una via d’uscita e dipende solo da noi… e anche se la tua può essere solo una paura vale la pena di trovare qualcuno che ti aiuti….
@enrico Per quel che può servire, nei commenti spero che tu abbia notato il libro suggerito nei commenti. Inoltre, sul blog trovi spesso, sotto la categoria Gestione del tempo, alcuni piccoli suggerimenti per riuscire a riprendersi per lo meno dei piccoli spazi di stacco e di rigenerazione. In bocca al lupo! E non trascurare il suggerimento di francesca.