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Pensare il dopo

Andrea Fontana sottolinea da giorni la necessità di una narrazione del dopo, quando, tra qualche mese, l’emergenza sarà finita.
Paolo Giordano e Luca Sofri, più modestamente, chiedono che qualcuno almeno pensi e racconti quale sarà il percorso che ci porterà verso il dopo, quello che intraprenderemo, auspicabilmente, tra qualche settimana.

Ho il sospetto che questi ultimi anni ci abbiano consegnato una classe politica incapace di comunicare il progetto, talmente accartocciata (come ho scritto tante volte qui) sul comunicare il nemico da aver perso i paradigmi fondamentali di come si costruisce una visione comune, di come si aggrega una collettività per qualcosa e non contro qualcuno.

Non mi piacciono le metafore e le similitudini belliche usate in questi giorni, descrivono in maniera molto parziale ciò che stiamo vivendo.
Il virus non è un avversario con una volontà e non ha, di per sé, neppure l’obiettivo di annientare l’organismo attaccato, la cui morte porta alla morte del virus stesso, per dire solo due differenze fondamentali.

Mi è piaciuto, anche se non mi trova sempre d’accordo nei contenuti, il tentativo fatto da Simone Perotti di mostrare un altro punto di vista, a partire dalla sua critica a #milanononsiferma, fino alla ricerca degli effetti collaterali positivi non solo come magra consolazione, ma come metodo d’indagine della realtà:

Insomma, effetti collaterali. Che sono sempre interessanti, sono il backstage della realtà. Ci raccontano sempre molto di noi, delle cose di cui ci danniamo, e forse delle nostre coscienze non sempre cristalline nel giudizio sulla vita.

Servirebbe, mi sembra, ora, ma soprattutto servirà dopo, una capacità di comunicare la complessità del nostro vivere e, in un certo senso, anche la sua fragilità.
Partendo da alcune cornici:

  • chi spaccia soluzioni semplici, pozioni magiche infiocchettate con uno slogan, a problemi complessi o non ha idea di che cosa stia parlando o, più probabilmente, sta provando a fregarci;
  • non esiste al mondo qualcuno che abbia tutte le risposte in tasca, né per questo né per gli altri problemi che saranno l’agenda dei prossimi anni (migrazioni, ambiente, stagnazione economica, dinamiche demografiche). Non sarà l’uomo forte, ma neppure quello intelligente. Sarà solo l’unione di pensieri e prospettive e la ricerca faticosa della sintesi, probabilmente fatta anche di errori inevitabili e della capacità di ammetterli. Questo dovrebbe essere il dibattito politico in una comunità sana;
  • la fragilità è una componente ineliminabile del nostro esistere. Dovremo affrontare altre crisi, illudere del contrario non serve;
  • ci sono cose che non stanno insieme, averle entrambe è impossibile, prometterle entrambe è disonesto. Si chiamano trade-off;
  • la comunicazione politica deve, in qualche modo, contribuire anche a educare a tutto questo. Non può più accontentarsi di coagulare consenso.

Mi domando, però, se la vogliamo davvero una comunicazione così.
E se non siamo noi i primi a desiderarlo, l’uomo della provvidenza, quello che

  • tranquilli, ci sono qua io
  • non è colpa nostra
  • non costa nulla

Quello che tranquilli, il nemico è lui, noi siamo i buoni.

La costruzione del nemico

In questi giorni mi è capitato sotto gli occhi un articolo non recentissimo di Hannes Grassegger per Das Magazin, ripreso e tradotto da Internazionale.
Racconta di come Arthur J. Finkelstein e George Birnbaum abbiano progettato, da consulenti elettorali del presidente ungherese Viktor Orbán, una delle più impressionanti e riuscite operazioni di “creazione di un nemico” che sia dato ricordare.
Mi ha riportato alla memoria quanto scrivevo qualche tempo fa sulle modalità di costruzione del consenso, ed in particolare sulla logica amico-nemico.
Il nemico, in questo caso, è George Soros.
E l’operazione è stata talmente ben congegnata da farne non soltanto l’argomento per la costruzione del consenso attorno a Orbán, ma un vero e proprio simbolo (ed una facile risorsa di consenso) per tutte le destre del mondo da allora in avanti. A prescindere da qualsiasi verità a proposito della vita di colui che, da allora, è diventato semplicemente l’emblema di un complotto mondiale contro popoli e nazioni.

Mi sembra che l’articolo confermi quanto ho scritto sui vantaggi di questa logica di costruzione del consenso:

  • velocità nella creazione e facilità nella comunicazione;
  • forza nel reprimere il dissenso;
  • focus sui comportamenti del nemico più che sui propri e, quindi, non necessità di proporre un vero progetto di sviluppo per il futuro.

La logica amico/nemico si riassume nella formula negative campaigning: focalizzare l’agenda elettorale sugli attacchi al proprio nemico piuttosto che sulla proclamazione dei propri valori e della propria visione del futuro, con un duplice obiettivo: compattare gli elettori della propria parte e dividere quelli della parte avversa.

Si aggiunge, però, un elemento che merita di essere evidenziato. Lo riprendo citando due spezzoni dell’articolo:

Finkelstein aveva trovato in lui [Soros, nota mia] l’avversario ideale. Un Mister Liberal come l’aveva sempre sognato, l’incarnazione di tutte le contraddizioni che i conservatori odiano in quegli esponenti della sinistra che hanno successo economico: uno speculatore finanziario che allo stesso tempo chiede un capitalismo più umano. E la cosa più bella è che l’obiettivo della campagna elettorale non era un esponente politico e neanche una persona che viveva nel paese. “L’avversario perfetto è quello che puoi colpire continuamente senza che lui possa colpirti mai”, sottolinea Birnbaum.

Il grassetto, mio, sottolinea un aspetto interessante: individuare un “nemico” esterno al sistema, non in grado di opporre reazioni dirette. Qualsiasi reazione di Soros alla campagna, infatti, veniva regolarmente, come si descrive nell’articolo, utilizzata ad uso della narrazione del nemico.

A conferma di questo:

L’ultimo passo del metodo era tendere una trappola all’avversario: Finkelstein metteva in giro una notizia falsa, contando sul fatto che l’avversario si sarebbe incastrato da solo cercando di smentirla. Infatti reagendo all’accusa l’avrebbe inevitabilmente legata al suo nome, mentre ignorandola non avrebbe avuto modo di confutarla. Nel migliore dei casi poi la falsa notizia sarebbe stata di per sé così strana o sconvolgente da essere ripresa dai mezzi d’informazione.

Qualunque tipo di risposta a questo attacco viene re-incorniciata, appunto, a vantaggio dell’attaccante.

Detto tutto questo, la cosa che fa più impressione sono le ultime righe dell’articolo:

Finkelstein è morto nell’agosto del 2017. L’Ungheria è stata il suo ultimo progetto. Nel 2011, in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici, aveva detto: “Volevo cambiare il mondo. L’ho fatto. L’ho reso peggiore”.

 

Post Scriptum
Riporto anche, dalla parte iniziale dell’articolo, una descrizione del profilo di George Soros

Fino a qualche anno fa Soros era un miliardario la cui critica al capitalismo era tenuta in considerazione perfino al Forum economico mondiale di Davos. Un finanziere che una volta faceva parte delle trenta persone più ricche del mondo, ma che poi ha devoluto buona parte dei suoi miliardi alla Open society foundations, una rete di fondazioni, al terzo posto nella classifica mondiale delle organizzazioni a scopo benefico, subito dopo quella di Bill e Melinda Gates. Ma mentre Bill Gates, il fondatore della Microsoft, cerca di alleviare le sofferenze del mondo, per esempio estirpando la malaria, Soros cerca di migliorarlo con iniziative a sostegno dei migranti. Vuole realizzare l’ideale che il suo filosofo preferito, Karl Popper, contrapponeva al totalitarismo: una società aperta.

La costruzione del consenso

Forse, a chi si intende di questi temi, la semplificazione potrà sembrare eccessiva.
La propongo comunque.
Fondamentalmente, i modi per creare consenso e coesione (in un gruppo, in un’organizzazione, ma anche in un intero Paese) sono due: affidarsi alla logica amico-nemico, oppure costruire e comunicare un progetto credibile e convincente.
Nel primo caso l’impalcatura del consenso si regge su un messaggio: là fuori c’è un nemico pericoloso, la coesione interna, il consenso al leader, l’adesione a un’idea (magari senza troppo sottilizzare) servono a distinguersi e difendersi da quel nemico.

I vantaggi di questa modalità sono piuttosto evidenti:

  • velocità nella creazione del consenso (se il nemico è davvero così pericoloso, non c’è che una possibilità: stare con chi lo combatte);
  • forza nel reprimere il dissenso (o stai con me, o sei contro di me e, quindi, fai il gioco del nemico);
  • focus sui comportamenti del nemico più che sui propri: non è nemmeno così necessario avere un progetto di sviluppo per il futuro, e, soprattutto, il confronto con i risultati passa in secondo piano.

Per tutti questi motivi, non sorprende il fatto che gruppi, organizzazioni, anche partiti politici nella fase iniziale del loro ciclo di vita (e nelle fasi in cui il tema del consenso è più rilevante) ricorrano a piene mani alla logica amico-nemico (non credo serva fare esempi).
Molto spesso, addirittura, queste narrazioni individuano il nemico all’interno del proprio sistema (altre parti dell’organizzazione, altre funzioni aziendali, altre correnti di partito, eccetera).

La seconda modalità, invece, consiste nel creare coesione attorno ad un progetto, ad un obiettivo, ad un “dover essere” persuasivo e motivante. Si tratta di un processo più lento, probabilmente più solido e inclusivo. Certo, questa modalità sottostà anche a quello che, in un ambito un po’ diverso, abbiamo definito “Il principio del progresso“. Non basta, cioè, stabilire un obiettivo coesivo, si deve anche comunicare costantemente un progresso al fine di mantenere alta la motivazione.

Non serve precisare come l’abilità del leader resta quella di dosare le due logiche, perché se è vero che di logica amico-nemico si può campare per un bel po’, gli effetti collaterali indesiderati non sono da poco:

  • reprimere il dissenso può significare creare una conflittualità latente che approfitterà della prima occasione per manifestarsi;
  • definire la propria identità soltanto per differenza rispetto al nemico vuole dire, comunque, non costruire un modello proprio che diventi un polo di attrazione di nuovo consenso, magari esterno rispetto alla cerchia iniziale. Si “incapsula”, cioè, l’identità del gruppo nella pura contrapposizione con il nemico;
  • non avere un polo di attrazione, ma soltanto un polo di repulsione potrebbe creare, nell’organizzazione, delle “schegge impazzite” che, se anche si applicano per infliggere delle perdite al nemico, non sanno però “fare squadra”.

Infine (ma forse questa è la cosa più importante), le organizzazioni che basano il loro consenso interno soltanto sulla logica amico-nemico spesso implodono in brevissimo tempo, quando il nemico sparisce o perché viene sconfitto definitivamente (infatti, capita  di osservare leader che preferiscono “mantenere in vita” un nemico proprio per non dover affrontare il problema della sua scomparsa), oppure perché qualcuno, anche dall’interno, inizia ad insinuare il dubbio che il mostro potrebbe non essere così brutto come lo si dipinge e che, a guardarlo meglio, si tratta più di un avversario che di un nemico.

 

Nota: questo post era apparso, pur se in forma un po’ diversa, sul blog “Crisi e sviluppo” di Manageritalia.
Visto che quella sezione non è più disponibile, l’ho ripreso qui.

I marziani e la piazza

[Post retorico e anche un po’ presuntuoso]

Una premessa: sono anch’io convinto (non ci vuole molto) che la politica non sia capace di parlare il linguaggio della gente.
L’effetto che mi hanno fatto le ultime apparizioni di Rosy Bindi nei talk show della scorsa settimana è che ho cominciato a credere ai marziani.
Il diverso livello logico e di pensiero tra i problemi che venivano posti e le risposte che venivano date era talmente evidente da essere irritante.
Detto questo, mi faccio due domande.

La prima, a cui non so che cosa rispondere è: ma la politica è mai stata, davvero, capace di parlare il linguaggio della gente?
E quand’anche lo avesse fatto, quali sono stati gli effetti?
E siamo poi così sicuri che lo debba fare?
(Lo so, sono tre, le domande. Ma collegate).

La seconda (e su questo qualche idea me la sono fatta): siamo sicuri che non è altrettanto vero anche il contrario?
Che, cioè (e qui potrebbe stare la vera novità), la gente non è più capace di parlare il linguaggio della politica?
Quando, per dirne alcune, qualsiasi ipotesi di accordo diventa inciucio, compromesso diventa una parola impronunciabile, le due sole alternative che raccolgono un qualche consenso oscillano tra cesarismo e democrazia diretta (molto sui generis, l’uno e l’altra, peraltro), mi domando se non sia lo spazio della politica ad essere come minimo molto ridotto, e magari pure un poco guastato.
Non so ben dire che cosa caratterizzi in sé un’istanza politica.
Quello che mi pare di capire, però, è che le istanze (quasi tutte sacrosante, peraltro) che arrivavano da alcune piazze avevano molto poco di politico e di traducibile in soluzioni politiche.

Pensavo a questo, durante il weekend.

Poi mi è capitato di leggere una citazione di Georges Friedman:

Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni.

E mi sono chiesto se non stia per caso in questo, la differenza.

[Retorico e presuntuoso, vi avevo avvertiti]. 

 

 

Bamboccionismi

Un paio di considerazioni sulla parte finale di questa campagna elettorale:

[ordered_list style=”decimal”]

  1. Ancora una volta, come ho già sottolineato qui, la ricerca del consenso è avvenuta molto più facendo leva sulla paura del nemico che su un progetto per il Paese. Lo ha messo in evidenza Luca Sofri. Sono d’accordo con la sua analisi:
    Questa retorica è stata non solo fallimentare, ma addirittura complice dell’inesistenza di progetti nuovi, alternativi, convincenti, adeguati ai tempi.
    Non sottoscrivo, invece, la conclusione.
    Al contrario.
  2. Il risultato più temuto è l’ingovernabilità: che, cioè, dalle urne non esca una maggioranza chiara, tale da consentire a chi ha vinto le elezioni di dare attuazione ai propri programmi.

[/ordered_list]

La somma di queste due cose la dice lunga su come stiamo messi: male.

Ciò detto, però, in qualsiasi altro sistema organizzato questi sarebbero chiari (e allarmanti) segnali di, chiamiamola così, immaturità.

Ecco.

Solo per dire che non dobbiamo farci illusioni: vale anche per un Paese e per la sua politica.

Narrazioni politiche, nemici e costruzione dell’identità

La lettura quasi contestuale di questi due post (1 e 2) di Alfonso e di questo articolo del New York Times (ripreso anche da La Stampa) mi ha fatto riflettere (di nuovo) su una questione su cui sto insistendo da un po’: se è vero (come sostiene Drew Westen) che

Le storie che i nostri leader ci raccontano contano probabilmente quasi quanto le storie che i nostri genitori ci raccontano da bambini, perché ci orientano su come stanno le cose, come potrebbero andare e come dovrebbero andare; sulla visione del mondo di cui sono portatori e sui valori che considerano sacri. I nostri cervelli si sono evoluti per “aspettarsi” storie con una particolare struttura, con dei protagonisti e dei cattivi, una salita da scalare o una battaglia da combattere. La nostra specie è esistita per più di 100.000 anni prima dei primi segni di alfabetizzazione, ed altri 5.000 anni sono passati prima che la maggioranza degli umani imparasse a leggere e scrivere.

Le storie sono il primo modo con cui i nostri antenati hanno trasmesso conoscenze e valori.

allora, non esiste leadership senza narrazione.

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Fortini assediati e costruzione dell’identità

In questi giorni si stanno incrociando alcune riflessioni a partire dalle considerazioni fatte sulla Festa Nazionale del 17 marzo, da questo post di Gianluca Briguglia e da alcune conversazioni con persone che stimo molto per la loro profondità di pensiero e di impegno.

Parto dalla domanda che ho lasciato nei commenti al post citato poco fa: vale la pena rinunciare a “spaccare il capello in quattro”, e, quindi, magari, anche a una quota di verità per creare momenti di celebrazione identitari?

Le risposte (a partire da quella della Meloni che ha dato origine al post, fino a quelle degli avventori del blog) mi pare propendano per il sì.

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