Sapere, saper fare, saper insegnare

Parto, in questo ragionamento, da una constatazione: sono consapevole di non saper fare molte delle cose che conosco e che insegno.
Nel senso che, nell’applicare le teorie ed i modelli che insegno nella mia vita di tutti i giorni, faccio la stessa fatica di uno qualsiasi dei miei allievi.
Anzi, spesso, di più.

Ora, succede frequentemente di sentire affermazioni del tipo: “Diffida di chi non sa fare le cose che pretende di insegnarti“.
Diffidate di me, allora.
Ma quanto (e a che condizioni) è vera questa affermazione?

Il tema appare complesso. Ecco i miei due cents.

 

Partiamo dall’inizio: la differenza tra sapere e saper insegnare. Molti (io compreso) hanno fatto esperienza di docenti che, a qualsiasi livello, pur avendo una conoscenza profonda della propria materia e dell’oggetto dei propri studi, non sono in grado di trasferire efficacemente questo sapere.
Qui la questione è, essenzialmente, legata al tema generale della comunicazione: la capacità, quindi , di tradurre modelli e di informare, creare collegamenti, creare stati emotivi e, anche, motivare all’apprendimento.
Roba che si impara, insomma. Se lo si vuole e lo si ritiene utile.
Certo, è necessario abbandonare l’idea che la comunicazione sia “tutto contenuto” e cominciare a confrontarsi in maniera aperta con gli elementi “di struttura” del processo comunicativo.

Problema diverso, mi pare, è quello tra saper fare e saper insegnare.
La differenza, per come la vedo io, sta qui: nell’insegnare entra in gioco la capacità di spaccare un processo (nel mio caso un processo comportamentale) in piccoli pezzi, ed astrarre modelli che diano sostanza ed indicazioni rispetto alle singole fasi del processo stesso. Un’opera, quindi, di sistematizzazione.

Saper fare implica la capacità di rimettere insieme questi pezzi e trasformarli in un comportamento appropriato a seconda del contesto (so che questa definizione implica anche il concetto di “saper essere”, ma in questo momento preferisco mantenere al di fuori della discussione questo aspetto). Un’opera, quindi, di sintesi.

Ecco: non necessariamente queste capacità convivono nella stessa persona.

Questo, però, non risolve il problema. Perché, mi direte, a questo punto scegliamo insegnanti che, invece, assumano in sé entrambe queste capacità e “diffidiamo”, come si diceva sopra, di chi possegga soltanto la prima.

Anche qui, non è così semplice.
Ho, infatti, l’impressione che chi possiede il secondo tipo di capacità (il “saper fare”) tenda a “proiettare sugli altri” il proprio modo di compiere quella che abbiamo definito la “sintesi”, di risolvere i problemi, di affrontare le situazioni. Cosa che, invece, in un processo di apprendimento, dovrebbe avere più a che vedere con la conquista individuale e, in qualche modo “personale”.
Per questo, arriverei al paradosso di dire “diffida di chi sa fare ciò che pretende di insegnarti“.
O, per lo meno, diffidane nel momento in cui ti propone il suo modo di fare sintesi.

Naturalmente, tutto questo è tanto più valido quanto più si parla di capacità complesse.
Vale meno (e forse non vale per nulla) per capacità semplici e/o di carattere tecnico/applicativo.

Si tratta, come vedete, ancora di idee grezze.

A voi la palla…

12 commenti
  1. Stefania dice:

    Luca, credo che questa volta tu abbia veramente toccato un tasto dolente. Io spesso mi ritrovo addirittura ad affermare:”Questa cosa so come si fa, ma non so farla”. Giusto per mettere ancora più carne al fuoco.

    L’insegnamento è una delle arti più difficili e, come in tanti hanno già affermato, non può risolversi nel semplice trasferimento di sapere.
    Provo a dire la mia, e credo che il punto cruciale sia la riflessione. Saper fare non può risolversi esclusivamente in una sintesi, che poi si ripeta in maniera automatica, ma riflettere sempre e comunque sulle proprie azioni per poterle in qualche modo migliorare. Questo significherebbe sviluppare un apprendimento continuo e una maggiore sensibilità nell’eventuale condivisione del proprio “saper fare”.
    Ma questo non è ancora sufficiente, condividere, e quindi anche insegnare, significa entrare in contatto non con dei semplici “riceventi”, ma con persone, che possono ricevere ma anche rielaborare e ricondividere ognuna in modo differente. Credo quindi che una dote indispensabile all’insegnamento sia la sensibilità, o meglio l’empatia. Essere in grado quindi, se non di entrare totalmente nei panni dell’altro, di non dimenticare mai che l’altro può essere simile a noi, ma mai uguale!
    Quindi direi… non dimentichiamo di ascoltare mai chi ci ascolta!
    A presto.

  2. angelo dice:

    …segue
    Il sapere è l’insieme delle conoscenze condivisibili con l’insieme della società. Diversamente :cui prodest?
    Diversamente ,serve solo allo scienziato solitario che forse un giorno scoprirà chissà che cosa. E’ possibile.
    Per essere condiviso ,il sapere necessita di una voce,di una mano che scrive,di una rotativa che stampa libri e riviste specializzate.
    L’efficacia di tutti questi “strumenti” di divulgazione ,nasce tuttavia da un ‘unica fonte:
    la capacità di fornire un campo fertile sul quale ognuno degli interessati potrà utilizzare la zappa o l’aratro che più confa alle proprie esigenze ,seminare le proprie necessità per raccogliere gli scopi che la vita (l’esterno) gli imporrà, o la mente (intuito)gli proporrà.
    Ti leggo da poco tempo. Ritengo che le persone come te siano fornitrici di campi fertili: idee,esperienze,raccolta di pensieri. Formazione (c’è sempre da imparare qualcosa) ed informazione (divulgazione,insegnamento)
    La funzione di formatori non può essere monosettoriale;dev’essere per definizione multidisciplinare,e perciò stesso impossibilitata a saper fare tutto ciò che si divulga,per il semplice motivo che la funzione è di fornire campi di riflessione che generano strumenti di applicazione specifici per ognuno degli “studenti “e specifici per ogni loro realtà .
    L’importante è che il divulgatore sia fonte di chiarezza,concretezza e applicabilità .
    Non sono competente della struttura del processo comunicativo, ma mi viene in mente un tuo post sulla comunicazione contenutistica e/o relazionale. Ecco, il saper insegnare è senz’altro comunicazione esclusivamente contenutistica. (naturalmente a quei livelli)
    Se posso dare un’immagine,la mente mi va al Capitano di carpe diem.
    In questo senso nel mio primo abbozzo di risposta parlavo di leadership e capacità di fare follower:
    spacchettare il processo,semplificarlo,capacità di stimolare consapevolezza di sé e fornire modelli semplici,i migliori *.Insomma la capacità di far sì che ognuno degli “studenti” possa occupare uno spazio in quel modello,indipendentemente dalla propria specializzazione.(sempre che non abbia sbagliato corso)
    Ricordo altro tuo post:brushe ,la limitazione degli strumenti e la semplificazione del disegnare. Ho aggiunto in quell’occasione ,che la limitazione degli strumenti è stata sicuramente conseguente ad una semplificazione del problema.
    E’ un po’ come la messaggistica di twitter:esprimere il tuo pensiero in 140 caratt. anziché in ½ pag.
    Twitter ti obbliga ad una sintesi sintattica alla quale non siamo abituati;tuttavia ti sforzi ,e ,senza comprimere il pensiero e senza sacrificare la grammatica,riduci il n° delle parole. Semplificazione del modo di comunicare ,maggiori probabilità per gli altri di capire l’Idea e/o il modello che vuoi esprimere e maggiore facilità di verificarne l’applicabilità nella propria realtà. Se così è, quale importanza se l’insegnante sa fare ciò che lo “studente “ dovrà trasferire nella propria realtà?
    Infine ,e con ciò spero di non mandare la palla in tribuna anziché al centro;
    a proposito di insegnante e studente:
    mio figlio di 4 ½ anni,si diletta a giocare a scacchi con il pc. Conosce le regole fondamentali ;ogni tanto giochiamo con la scacchiera. Per un paio di volte,nello sforzarmi di “scendere “ al suo livello,ho commesso un errore. In entrambe le occasioni mi ha dato scacco matto ,commentando con sarcasmo il mio errore.
    Palla al centro?

    *(FT 30 nov.2011http://www.johnkay.com/2011/11/30/a-wise-man-knows-one-thing-%E2%80%93-the-limits-of-his-knowledge#.TtYPPCi9DX8.twitter )

  3. Luigi Mengato dice:

    Ciao Luca,
    intanto grazie perchè arrivo al tuo post dopo aver navigato su un po’ di blog di formatori che non fanno altro che autocelebrarsi. Arrivo al tuo e trovo del contenuto, vero ed interessante. Grazie.
    Poi …. le tue “idee grezze” mi fanno riflettere. Ecco cosa ne esce:
    – concordo con te sulla differenza tra “sapere” e “saper insegnare”: penso sia un problema di comunicazione.
    – tra saper fare e saper insegnare: concordo su quella che tu chiami “sistematizzazione” (spaccare un processo ed astrarre dei modelli), mi chiedo però se il processo di sintesi (trsformare il modello in un comportamento adeguato) non sia compito del discente più che del docente. Se sostituissimo il verbo “insegnare” con “proporre” ? Proponiamo dei modelli di comportamento e lasciamo che i discenti li facciano propri, se necessario modificandoli secondo la propria personalità.
    In qualità di docenti potremmo “proporre” dei modelli di comportamento che “sappiamo”, ma non per questo che “sappiamo fare”…..
    Che dici ? Sono curioso del tuo punto di vista.

  4. alberto dice:

    Il “successo” del docente è la misura di quanto hanno imparato i discenti ?
    negli ambienti dove non c’è l’interrogazione e il voto, sono i comportamenti e i risultati a decretarlo.
    Probabilmente in alcuni casi il metodo di chi insegna va casualmente bene per chi impara, in altre situazioni si incontrano persone che sono in grado di apprendere rielaborando e personalizzando
    (risistematizzando) dando così grandi soddisfazioni; in altri momenti è necessario accettare che non è possibile insegnare a tutti.
    Chi insegna spesso non può scegliere a chi insegnare e viceversa.
    Personalmente ho trovato giovamento nell’affiancare a momenti di lavoro collettivi cotatti individuali sforzandomi di non perdere il focus su due aspetti:
    – Quali sono i suoi punti di forza ?
    – In che cosa gli posso essere utile prioritariamente ?
    Apprezzerà che io accetto che lui non può sapere tutto e anch’io non posso sapere tutto, pur sapendone più di lui.
    Ah, quante cose ho imparato da loro rimanendo disponibile all’ascolto !

  5. paolo g bianchi dice:

    “Descrivi qualcosa e un quarto della gente comprenderà.
    Descrivi qualcosa mentre la mostri e i tre quarti della gente comprenderà.
    Descrivi qualcosa, mostrala e poi incoraggia la gente a fare un uso immediato della propria conoscenza e nove persone su dieci comprenderanno”.

    Ho letto ultimamente questa massima giapponese e mi ha riconfermato di come nella formazione come nella vita siano importanti alcuni passaggi per ottenere dei buoni risultati.
    Il primo è saper dire cosa fare: non basta avere l’idea bisogna saperla comunicare bene a tutti.
    Il secondo è saperla mostrare con entusiasmo: spesso le persone hanno bisogno di “toccare con mano”.
    Il terzo è saper coinvolgere gli altri con l’esempio: posso applicare solo ciò che vedo già applicato con successo.

    Aggiungerei a tutto questo solo due requisiti fondamentali oggi molto difficili da reperire.
    Il primo, avere qualcosa di veramente valido da insegnare.
    Il secondo, avere un buon maestro che ti insegni ad imparare sempre soprattutto quando insegni agli altri.

  6. Luca Baiguini dice:

    Grazie a tutti per i commenti, interessanti e articolati.
    @Luigi: sì, nel post è spiegato male, ma, essendo un “saper fare”, anche secondo me la trasformazione del modello in comportamento è più compito del discente (o dell’interazione, questa volta, però, paritaria, di tutte le componenti dell’ambiente di apprendimento).
    @alberto: in effetti, la capacità di ascolto è essenziale nel “saper insegnare” (in questo senso, come sottolinea anche Luigi, entra prepotente il tema della comunicazione). Il fatto che siano i risultati ottenuti a misurare l’efficacia di un processo formativo, invece, è un’affermazione che secondo me presenta una serie di criticità, sulle quale mi riprometto di tornare in maniera articolata.
    @paolo: il tema che proponi ha a che vedere con gli stili di apprendimento e (conseguentemente) di insegnamento. Ciò che, provocatoriamente, sottolineo, è che l’ultima delle tre fasi della massima non debba presupporre che io sia in grado per forza di fare ciò che insegno (attenzione, sto parlando per lo più di tematiche comportamentali) per essere in grado di produrre cambiamenti e crescita in chi ascolta. Ciò significa che tra la comprensione e l’uso c’è un passaggio di elaborazione che chi insegna può (e deve) incoraggiare (creando le condizioni, per lo più, affinché questo avvenga), ma al quale non deve necessariamente partecipare. Spero di aver articolato in maniera più chiara il ragionamento.

    In ogni caso, le vostre riflessioni mi incoraggiano a tornare sul tema.

  7. Helga dice:

    Io credo che la formazione sia un atto d’amore verso il sapere, verso se stessi e verso gli altri. L’amore per il sapere prevale nettamente negli “esperti” che fanno i formatori loro malgrado. l’amore per se stessi prevale nei form-ATTORI che formano per sentire l’applauso alla fine della performance. Gli esperti ti fanno sentire confuso e frustrato, i formattori ti stupiscono con incantesimi di breve durata. Solo i veri formatori ti fanno crescere.

  8. eugenio golino dice:

    Sollecitato dall’argomento rimbalzato su Fb, ci provo sulla questione spinosa: saper fare e saper insegnare.
    Distinguerei gli insegnamenti “teorici” (pur riguardanti i comportamenti umani) che posso anche non mettere in pratica, purchè riesca a trasmettere negli allievi entusiasmo e la “corrente affettiva” che può stimolare in loro la motivazione all’agire.
    Diciamo che insegno bene ma razzolo male: forse esistono dei vantaggi secondari o delle motivazioni profonde che mi spingono a non fare, pur sapendo come.
    E’ il mistero dell’animo umano con le sue fragilità e i suoi percorsi mai lineari, davanti ai quali mi fermo come sulla soglia del tempio.
    Per quanto riguarda invece le “pratiche” o le “arti” direi di no. Non posso insegnare il golf senza essere un buon praticante, non necessariamente un campione. Devo capire cosa accade nel corpo dell’allievo osservandolo, e questo deriva dalla tecnica di base (che ho appreso) ma soprattutto dalla correzione dei miei difetti personali.
    Chiaro che per essere un buon formatore devo credere e amare quello che insegno, ma se non ho avuto il training personale (e la passione da parte dei miei insegnanti) non ne uscirò bene, e i mie allievi con me.

  9. Luca Baiguini dice:

    Grazie Helga, Luigi, Eugenio.
    Si sta componendo un puzzle davvero molto interessante.

Trackbacks & Pingbacks

  1. […] Per leggere l’articolo clicca su Articolo […]

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.