Cultura giuridica, regole, controlli

Emergo ora dalla lettura del libro di Salvatore Rossi “Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale”.
Si tratta di una lettura molto interessante, per molti versi.
Secondo Rossi, l’Italia vivrebbe in una sorta di controtempo rispetto alle altre economie sviluppate. Questo stesso controtempo ci ha permesso, in un certo senso, di uscire meno danneggiati di altri da questo periodo di crisi. Ma non ci si deve fare troppe illusioni: i problemi strutturali permangono, e se il sistema Paese non sarà in grado di cogliere questa occasione di rinnovamento, quelli che temporaneamente hanno rappresentato degli scudi contro l’imperversare della crisi si trasformeranno in fardelli sulla via della crescita.

Rossi propone due filoni su cui concentrare l’attenzione: il ruolo del sindacato e la cultura giuridica.
Su entrambi questi fronti, le riflessioni sono profonde e documentate.
Mi hanno colpito in particolare le considerazioni conclusive sulla cultura giuridica che caratterizza il nostro Paese, per due motivi.
Il primo è che mi pare che vengano inquadrate con grande efficacia alcune delle magagne profonde del nostro rapporto con il concetto stesso di legalità.
Il secondo ha, invece, a che vedere con il fatto che questo stesso tipo di cultura anima spesso anche il rapporto tra individui, gruppi e regole in ambiti più micro rispetto a quello del rapporto tra individuo e Stato.
Segnatamente, le considerazioni che seguono possono senz’altro, a mio modo di vedere, essere applicate a molte realtà organizzative (aziende, team di lavoro).

Cito alcuni spunti dalle pagine conclusive del libro (l’esempio riportato all’inizio del capitolo è quello di due soggetti che desiderano aprire una fondazione, l’uno in Italia, l’altro negli USA: per il primo occorrono diversi mesi di “controlli preventivi”, per il secondo bastano un paio di giorni, visto che i controlli sulla congruità dell’attività agli scopi dichiarati verranno effettuati ex post):

Supponiamo che una certa attività economica presenti quella che gli economisti chiamano una esternalità negativa; si pensi ad esempio al potenziale turbamento della fede pubblica (per quanto insignificante lo si possa ritenere) che si produrrebbe se una fondazione costituita a scopi di beneficenza […] dovesse tradire il suo mandato rivelando traffici venali.
Teoria e buon senso concordano nel suggerire l’applicazione di disincentivi pecuniari che orientino le libere scelte dei privati; nell’esempio fatto: ti sei, tu fondazione, trasformata in una impresa profit? O vorresti farlo? Bene, vuol dire che, oltre a pagare quanto dovuto per l’eventuale evasione fiscale (se sei una Onlus), i tuoi fondatori pagheranno singolarmente di tasca loro una speciale indennità all’erario, per compensare la collettività del danno morale subito. Qual è invece il riflesso condizionato del legislatore italiano? Quello di prevedere divieti assoluti o pesanti controlli ex ante (notarili e prefettizi), il più delle volte inattuabili o attuabili solo con burocratica cecità, sempre offensivi del buon senso, a causa di incoerenze interne delle norme o per incapacità dell’amministrazione e del sistema giudiziario.

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